Il dibattito intorno alla proposta di legge sul fine vita è in pieno fermento. Dopo il tentativo di fare passare una legge come in Toscana, il consiglio regionale d’Abruzzo ha messo uno stop, ma ora il confronto si sposta a livello nazionale.
Il disegno di legge in discussione si propone innanzitutto di cambiare il concetto alla base dell’articolo 580 del codice penale, che oggi è restrittivo ed obsoleto, pur mantenendo il punto sull’inviolabilità della vita umana ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione italiana. Il disegno di legge presentato dalla maggioranza sul fine vita interpretando quindi in modo equilibrato i dispositivi delle sentenze della Corte Costituzionale, smaschera una serie di prese di posizioni ideologiche come quelle pubblicate il 17 luglio scorso da “Il punto.it” (1), dove nell’intervista alla vicepresidente alla Consulta di Bioetica Onlus, si liquida come anacronistico e non adeguato all’evoluzione culturale l’assunto dell’indisponibilità della vita umana, contestando inoltre la capacità delle cure palliative di intervenire sulle sofferenze psicologiche del malato e vagheggiando di un superamento dell’eutanasia inserita in un contesto aspecifico, allo scopo di chiedere manifestamente la libertà di morire con l’approvazione e l’assistenza dello Stato e senza altri motivi se non una decisione soggettiva motivata da una diagnosi di depressione. E’ legittimo chiedersi se anche chi si occupa di bioetica e di sanità può essere pervaso da una irrazionalità ideologica che oscura la mente per cui, di fronte alla prospettiva della sofferenza, il disagio dell’uomo contemporaneo si traduce in una riduttiva concessione del diritto al suicidio assistito, senza preoccuparsi di schiantare la vita umana nell’abisso del biologismo.
Etichettare qualsiasi proposta equilibrata come “un passo indietro”, è un sorprendente approccio neofuturista, il che, considerate le conseguenze sociali e politiche del movimento novecentesco che idolatrava il progresso in nome dell’uomo nuovo, è quantomeno preoccupante. Cercare un dialogo sui punti concreti dovrebbe invece essere priorità per tutti a partire dai contenuti delle sentenze della corte costituzionale per testimoniarne la equilibrata dimensione, senza utilizzarne stralci a proprio uso; solo dopo si potrà criticare con obiettività la proposta di legge in esame, allo scopo perlomeno di comprender se i rilievi della Suprema Corte sono stati recepiti, riempiendo il cosiddetto “vuoto legislativo”. Con la finalità di fare piena luce sul dibattito in corso evidenziando in tutto i punti critici della proposta di legge e denunciare una volta per tutte la mancanza di equilibrio ed il tentativo fazioso di manipolare i documenti, è importante approfondire il dibattito sviluppatosi in Senato seguendo l’intero iter della proposta di legge, mediante la rilettura del “Fascicolo Iter DDL S. 65 Disposizioni in materia di terapia del dolore e dignità nella fase finale della vita, nonché modifiche all’articolo 580 del codice penale”, pubblicato il 20/07/2025. Altrettanto importante è recuperare i punti salienti delle sentenze della Suprema Corte.
La citata sentenza della Corte Costituzionale n°242 del 2019 pur dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile” precisa anche che “debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38/2010”. La Corte sottolinea che “Tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”.
Rileggendo il dispositivo della sentenza del 2019, constatiamo che per la Suprema Corte, le cure palliative sono centrali e che pertanto il DDL in discussione è tutt’altro che un passo indietro, ma anzi accoglie un rilievo cruciale del dispositivo, il che non è opinabile.
La sentenza della Corte Costituzionale del 20 maggio 2025 (Caso Cappato ter) aggiunge che “costituisce preciso dovere della Repubblica garantire «adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte”. Ed ancora “oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure. palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente”.
Rileggendo anche questo passo si chiarisce la realtà del problema: se c’è una necessità davvero non derogabile è quella di garantire a tutti il diritto alle cure palliative ben prima di quello al suicidio. Quindi se esiste un punto su cui focalizzare l’impegno del sistema sanitario sono le cure palliative. Non si capisce quindi la presa di posizione di alcune Onlus, che criticano la proposta di legge, sostenendo che l’obbligatorietà delle cure palliative (che peraltro non è menzionata nel testo in esame) sia uno stravolgimento dell’intento dei giudici della suprema Corte. Prendiamo in considerazione a questo punto il testo in esame nell’aula del Senato a partire dal contestato articolo 1: Il diritto alla vita è diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento. La Repubblica assicura la tutela della vita di ogni persona senza distinzioni in relazione all’età o alle condizioni di salute o ad ogni altra condizione personale e sociale.
Questo articolo è stato tacciato di essere anacronistico e di non tenere conto che il principio di indisponibilità della vita sarebbe oggetto di revisione anche nel mondo cattolico; fatte salve la libertà nell’esprimere le idee di ciascuno, occorre tenere conto della carta costituzionale italiana che tutela il diritto alla vita ed alla salute dei cittadini e la rende indisponibile (art. 2 ed art 32). Riguardo al presunto revisionismo da parte di alcuni ambienti cattolici sulla vita umana, è una affermazione talmente surreale che ci si domanda se l’articolo de il punto.it, riporti parole di gente che abbia un’idea anche vaga di cosa significa essere cristiani. Sulla questione della disponibilità della vita, nella lettura delle trascrizioni del dibattito in Senato è spiacevole rilevare che coloro che per anni hanno rivendicato il rispetto della carta costituzionale come usbergo per rimarcare i diritti dei lavoratori, si appellino all’articolo 3 della stessa carta per manipolare il concetto di uguaglianza, così da affermare che ogni richiamo all’indisponibilità della vita umana abbia “toni escludenti” nei confronti di chi come lei non è battezzata e non professa alcun credo religioso. Per questo stesso motivo rivendica l’esistenza di un’etica laica che a suo dire verrebbe esclusa dal disegno di legge in discussione e che la laicità, ha gli stessi diritti delle altre religioni. Al riguardo è importante dire la verità su entrambi le obiezioni: per prima cosa, l’indisponibilità della vita prescinde da qualunque approccio religioso e il difendere la vita è proprio dell’essere umano in quanto uomo e non in quanto essere religioso. In secondo luogo pretendere di mettere sullo stesso piano la laicità e le altre religioni, suscita un sorriso che sa di pena per la profonda ignoranza sul concetto stesso di religione e, per noi cristiani, di fede. Se infatti la religione in generale sottende alla domanda di senso della vita da parte dell’uomo che si innalza verso l’assoluto, il cristiano contempla la Verità in una Persona che la realizza totalmente e, considerando anche solo la Sua esperienza di vita terrena, parlare di toni escludenti è quantomeno ridicolo.
Un altro punto su cui si è focalizzata la contestazione è in riferimento all’art. 2: Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di cui al presente articolo, formatosi in modo libero, autonomo e consapevole, di una persona maggiorenne, inserita nel percorso di cure palliative, tenuta in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, ma pienamente capace di intendere e di volere, le cui condizioni siano state accertate dal Comitato nazionale di valutazione di cui all’articolo 9-bis della legge 23 dicembre 1978, n. 833″.
Qui la polemica si è soffermata principalmente sulla questione della distinzione tra sofferenze psicologiche nei pazienti che non avendo dolore fisico e pertanto non incluse in un percorso di cure palliative, vogliano accedere al suicidio assistito.
L’articolo 2 del testo in esame, in realtà smaschera chi per anni ha utilizzato la scusa delle sofferenze e del dolore come strumento, per ottenere ciò che vuole davvero: ovvero interrompere la vita umana così, su richiesta, come è già per l’interruzione di gravidanza, ovvero senza la necessaria valutazione del singolo caso, con profondità ed attenzione, obbligando magari i medici a prestarsi a questa nuova forma di soppressione della vita umana, che chiama suicidio assistito qualcosa di molto più perverso e totalmente contrario ai principi della medicina, in nome della laicità dello Stato.
Nel dibattito in Senato, le forze politiche cosiddette democratiche di sinistra, si sono distinte per la pervicacia ideologica, confermando che il concetto democratico a sinistra non ha nulla a che fare con il concetto greco di democrazia.
Un dibattito serio non può prescindere dall’ascolto di chi invece soffre: in questo senso la lettera di saluto di Laura Santi, di cui abbiamo con grande tristezza appreso della sua morte nei giorni scorsi tramite i telegiornali, va letta e ne va sottolineato il valore umano: è stata una donna che ha amato la vita ed ha lottato nonostante le sofferenze crescenti. La scelta di porre autonomamente fine alle sue sofferenze, va compresa in base alla realtà della dimensione fisica della sofferenza fisica della singola persona che si interroga sul valore della propria vita e sul senso del proprio soffrire, tanto più quando questo rende impossibile una vita di relazione. Tuttavia additare la Chiesa e Santa Sede, come responsabile di ingerenze croniche che ostacolerebbero il varo di una legge sul fine vita è scorretto, almeno per rispetto dei tanti sacerdoti, diaconi e religiosi che operano con amore negli Hospice, cosi come delle migliaia di famiglie, che con amore assistono fino alla fine i propri cari a casa, e che nella discrezione e nel silenzio, sono sostenuti dal lavoro e dalla solidarietà degli operatori degli hospice e dei volontari. Non sono le obiezioni dei cristiani che credono nel valore teologico della vita anche nella sofferenza, a rallentare il corso di una legge sul fine vita, semmai è il massimalismo di chi crede di cancellare il dolore con un colpo di spugna, sotto il mantra della libertà individuale, assunta come totem, a creare ostacoli. L’approccio ideologico ed il pressappochismo sono i veri nemici della legge sul fine vita. Non è nemmeno possibile inserire il fine vita nelle dinamiche mediatiche del consenso: gli innumerevoli sondaggi sul tema del fine vita, magari con improbabili suddivisioni d’opinione per parte politica, sono la prova che l’ideologia è ad uso e consumo di chi, facendosi depositario dell’opinione del momento, vuole raggranellare qualche voto o qualche follower. Non tutti hanno gli strumenti intellettuali per comprendere pienamente la dimensione del problema. Partire proprio dall’indisponibilità della vita umana come norma generale, è necessario per garantire la tutela della persona e di tutte le persone. Se infatti coltiviamo la speranza che nel futuro possa migliorare la qualità della vita e della salute della persona, nel presente abbiamo la certezza che garantire la dignità del fine vita, non ha nulla a che fare con la libertà di morire a proprio piacimento. L’unicità della singola persona umana, può e deve essere tutelata da norme che non trattino la vita come un complemento oggetto, ma come soggetto non esistente per sé, ma insieme agli altri, parti di un immenso progetto che sovrasta le nostre capacità di comprensione ed è a disposizione solo di Colui che è al di la dello spazio e del tempo.




