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Il dramma della guerra e i suoi effetti post-traumatici

da | 11 Ott 2024 | Editoriale

Oggi, nel dramma della guerra che si sta ampliando producendo sempre più vittime tra bambini, donne e anziani, abbiamo celebrato la memoria liturgica di San Giovanni XXIII, il papa buono, il papa del Concilio Vaticano II e il papa della pace, che ci ha insegnato a rispondere alla guerra non con l’odio ma con il perdono e ha fatto del dialogo tra i popoli lo strumento essenziale per parlare di pace.

La Chiesa aquilana da più di dieci anni, con la guida del Cardinale Giuseppe Petrocchi e da pochi mesi con quella del nuovo arcivescovo dell’Aquila, mons. Antonio D’Angelo, si è soffermata sugli effetti post-traumatici del sisma che ha segnato profondamente questo territorio e nel suo percorso di analisi ha aperto il campo anche al tema della guerra, grazie a due convegni nazionali sul terremoto dell’anima, che hanno delineato una strada da seguire, partendo dagli effetti post traumatici che spesso si intersecano nelle vittime delle calamità con quelli delle vittime della guerra.

Dopo non solo l’esperienza dei terremoti, ma anche del dramma della guerra che ormai è alle porte delle nostre comunità, con immagini atroci e sanguinose che quotidianamente si riversano sul web e sui mass-media, ci rendiamo sempre più conto di come non ci siano mai abbastanza motivazioni per sostenere la pace. La guerra in Ucraina e quella israeliano palestinese che oggi si è ormai allargata anche al Libano, ci fa comprendere come la risposta al terrorismo non è l’uso delle armi, anche se per motivi difensivi, perché la morte, porta la morte.

Come cristiani, siamo chiamati a ripudiare la guerra e i suoi orrori con ogni mezzo. L’Italia, profondamente segnata dagli effetti della seconda guerra mondiale, si è espressa nella Costituzione, all’art. 10, con il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Il dramma della guerra e dei suoi effetti, porta ognuno di noi a chiederci, come l’esperienza della Chiesa dell’Aquila – che da anni ha messo in moto un ufficio diocesano di pastorale dell’emergenza – possa dare un contributo nella formazione di coloro che al termine di questa tragedia bellica e umanitaria saranno chiamati a sostenere le popolazioni sopravvissute a questa guerra, terribile non solo per i suoi effetti di morte, ma per quelli che oggi potremmo identificare come effetti post-traumatici, molto simili a quelli prodotti dalle  catastrofi sismiche o naturali.

Durante la crisi di Cuba nel 1962, quando gli americani realizzarono un embargo attorno all’isola per evitare l’installazione dei missili sovietici, con il rischio di una guerra atomica, si levò alta la voce di Papa S. Giovanni XXIII che fu occasione per le due parti di trovare modalità con cui fare un passo indietro. Da quel momento, anche il ruolo del Papa rispetto alla pace è cambiato. Da allora, abbiamo sentito molto spesso i vari pontefici, alzare la voce a favore della pace, divenendo la voce di chi non ce l’ha.

S. Paolo VI, primo papa all’ONU, facendo tesoro degli insegnamenti del suo predecessore che a favore della pace aveva promulgato l’11 aprile 1963 l’enciclica Pacem in terris, con cui aveva invitato tutti i governi a ‘non rimanere sordi a questo grido di umanità”, si fece interprete di una diffusa coscienza non solo nella Chiesa, ma anche in Europa e oltre, di una coscienza di chi sapeva cos’era la guerra. E all’Onu gridò ‘Mai più guerra. Mai più la guerra. La pace, La pace’.

Oggi, in ogni occasione opportuna e inopportuna, Papa Francesco si fa voce della sofferenza e della tragedia che sta portando la guerra, chiedendo sempre con più forza che si spengano le armi e si dia spazio al dialogo tra i popoli per i quali neppure la diplomazia ha più voce.

Il linguaggio diplomatico che ormai in modo inefficace è diventato un brutale spettatore della contrapposizione tra l’invasione russa dell’Ucraina, con una guerra in Europa che vede il coinvolgimento di una potenza nucleare e il sostegno degli Stati Uniti, nell’ultimo anno è stato incapace di trovare soluzioni anche per la guerra israelo-palestinese che ora vede infiammarsi  anche il Libano.

Le guerre faticano a concludersi. La guerra imprigiona i popoli, ma la guerra imprigiona anche i pensieri e le speranze. Quando comincia la guerra, siamo tutti impotenti e le sorti restano nelle mani di un gruppo di signori della guerra.

La guerra è il fallimento della politica, che non sa dialogare, ma anche dell’umanità. Allora il primo fatto fondamentale è ribellarsi intellettualmente all’idea che la guerra sia ineluttabile. Il linguaggio è decisivo per avvicinare il negoziato, per evitare il prolungamento della guerra. La tregua è decisiva perché attraverso la tregua i popoli gustano la pace ed escono dalla logica di guerra. Consente il dialogo perché, diciamolo in una breve frase se a forza di non dialogare si è condannati ineluttabilmente alla guerra.

Come per i terremoti e le catastrofi naturali, per conoscere la guerra bisogna parlare con i feriti e i profughi. Bisogna toccarli. Quando il Cardinale Giuseppe Petrocchi ha istituzionalizzato il cammino della Chiesa aquilana sulla pastorale dell’emergenza, ha inserito come elemento fondativo di questo stile di ministero ecclesiale la parabola del buon samaritano e il ‘rapporto quasi carnale’ tra la vittima abbandonata sulla strada e questo uomo della Samaria, che si prende cura di lui in modo fattivo e affettivo.

Bisogna costruire una cultura di pace, consapevoli che ciascuno può dare un suo contributo. Non è utopico, ma è necessario per non essere travolti definitivamente dalla guerra. E noi cristiani, spesso così rannicchiati nella irrilevanza o presi dai problemi interni o anche un pò provinciali, abbiamo un grande patrimonio da spendere, quello dell’amore e del perdono.

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