L’Aquila – In Abruzzo, ieri, il centrodestra, guidato dal presidente Marco Marsilio, vota compatto contro la proposta di legge sul Fine Vita, puntualizzando che la tematica rientra nelle competenze del Governo italiano e del Parlamento, in cui però la Lega, durante la discussione in Consiglio Regionale, entrando nel merito del tema da affrontare ha espresso un giudizio negativo in tutti i suoi aspetti.
Questo progetto di legge d’iniziativa popolare, per la prima volta utilizzato nell’assemblea abruzzese, nato dalla campagna ‘Liberi Subito’ dell’Associazione Luca Coscioniè naufragato, ma la questione non finisce qui. Infatti in Toscana è già stata approvata una legge per praticare il suicidio assistito, che sarà impugnata dal Governo, in quanto non competenza dei governi regionali. Inoltre a breve inizierà al Senato la discussione sulla proposta di iniziativa parlamentare che vede come primo firmatario Alessandro Pagano.
Ieri, in un suo intervento al “Festival dell’Umano tutto intero”, il Presidente della CEI, il Cardinale Matteo Maria Zuppi, ha affermato che “La vita va difesa dall’inizio alla fine” e che è “pericolosissima e offensiva l’idea di avere il telecomando sulla vita”.
E nei giorni scorsi, Papa Leone XIV, ha affrontato questo tema in continuità con Papa Francesco e il Magistero della Chiesa, con un messaggio inviato tramite il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, ai vescovi britannici per la Giornata per la Vita 2025, in cui si afferma che «in questo anno giubilare incentrato sulla virtù teologica della speranza, è opportuno che il vostro tema, ‘La speranza non delude – Trovare un senso nella sofferenza’, cerchi di attirare l’attenzione delle persone su come il mistero della sofferenza, così prevalente nella condizione umana, può essere trasformato per grazia in un’esperienza della presenza del Signore, poiché Dio è sempre vicino a coloro che soffrono e ci guida ad apprezzare il senso più profondo della vita, nell’amore e nella vicinanza».
E sulla possibile legge sul Fine Vita, annunciata dal Governo italiano, è opportuno ricordare che la malattia è un tempo della vita che interpella, pone domande, e va vissuto attivamente; il fine vita poi, costituisce il limite delle istanze di una umanità che oggi come non mai si pone come centro del mondo, accartocciata su se stessa e che contempla sterilmente un essere umano occupato a mistificare la realtà usando come strumento una ragione divenuta non più mezzo per riconoscere l’armonia dell’immanenza con la trascendenza, ma un idolo che ha reso le menti schiave di una falsa razionalità di matrice positivista che si fa scudo della scienza, allo scopo di negare perfino l’esistenza stessa del metafisico e svincolarsi delle responsabilità che derivano dall’ammissione della sua presenza e della nostra realtà di esseri del bisogno. Di fronte al dramma della sofferenza e del fine vita nessuna risposta che abbia alla base questi criteri ha un senso concreto, tanto più credere di ideologizzare la questione nella presunzione che il mantra della libertà e del diritto possa costituire una risposta perlomeno come scelta di civiltà.
Quale è la civiltà a cui fa riferimento l’ideologia che è alla base delle proposte di legge depositate e delle norme regionali già approvate in Toscana e bocciate in Abruzzo e che hanno dato delle risposte “estemporanee” alla questione del fine vita? Siamo sicuri che fa riferimento al copione di fondo: l’ipocrisia maldestra di chi urla e manifesta per i diritti umani solo quando fa comodo e poi pratica l’aborto di bambini anche in fase avanzata di gestazione, come se la vita fosse degna di tale nome solo dopo che è stata accettata da parte di chi la usa a proprio piacimento. E’ facile smascherare le reali intenzioni di chi vende la legalizzazione di un atto disumano e profondamente egoistico: siamo davanti alla civiltà dell’egoismo e del nichilismo. In questo senso la proposta di potenziare e rendere obbligatorio l’accesso alle cure palliative è in grado di sgomberare il fumo in vendita per una serie di validi motivi.
Anzitutto nessuno come chi lavora nel campo del fine vita, ha maggior competenza non solo tecnica ma umana nell’approccio al fine vita per la ragione che solo lo stare accanto a chi soffre in tutte le condizioni e situazioni, utilizzando la propria scienza al servizio non semplicemente della vita, ma di una idea di essere umano che è in armonia con il proprio esistere, contemplando anche il morire.
La seconda ragione consiste nella certezza di poter controllare efficacemente il dolore con i farmaci e la sofferenza con la relazione umana che è alla base delle attività quotidiane in un centro di cure palliative.
E a questo punto è utile capire cosa c’è sul tavolo del confronto politico italiano di concreto oggi. La sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 sul caso Cappato, che pur dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile” precisa anche che “debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38/2010. La Corte sottolinea che “Tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”.
Ma è da tenere presente anche la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato ter, del 20 maggio 2025. La Corte ha rammentato che “costituisce preciso dovere della Repubblica garantire «adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte». In proposito, ha osservato con preoccupazione che ancor oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure. palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente”.
E infine il disegno di legge di Alfredo Bazoli del Partito Democratico, che di fatto voleva introdurre la morte di Stato. Infatti questo Ddl sul suicidio assistito non vuole introdurre un’assistenza dignitosa negli ultimi momenti di vita, ma la morte di Stato, cioè la possibilità che l’ordinamento eroghi, su richiesta, la morte.
Il “testo unificato” Bazoli si discosta in più punti dalla sentenza della Corte costituzionale, pur se i suoi sostenitori affermano di voler dare a essa puntuale attuazione: per esempio, fra i requisiti della morte medicalmente assistita, pone in alternativa alla “patologia irreversibile” di cui parla la Consulta, la “prognosi infausta”, di cui invece la Consulta non parla. Ma una patologia a “prognosi infausta” non rinvia obbligatoriamente a condizioni terminali: vi sono pazienti oncologici con “prognosi infausta”, ma le terapie loro praticate nei reparti di oncologia non costituiscono “accanimento terapeutico”: permettono o di rendere tendenzialmente stabile la loro condizione, o comunque di guadagnare anni di vita, nella gran parte dei casi senza alterare in modo completo la qualità della vita. Il ddl Bazoli non prevede come pre-requisito il ricorso alle cure palliative – ne fa cenno in termini vaghi – e non riconosce valore alla coscienza del medico che intenda sottrarsi a questa tipologia di pratiche, come la Corte impone. È dunque qualcosa di ulteriore rispetto alla sentenza. Per questo i sostenitori delle leggi regionali si interessano dell’estensione delle cure palliative solo formalmente, in quanto l’obiettivo è ideologico e non ha aderenza né con le intenzioni sottostanti ai pronunciamenti della Corte né con le reali esigenze di chi soffre.
Va inoltre sgombrato il campo da un equivoco. Estendere il diritto alla cura della sofferenza non significa affatto legiferare sulla morte medicalmente assistita. Infatti il Parlamento non è vincolato a dare dettagliata esecuzione alla pronuncia della Consulta mediante una legge per disciplinare il suicidio assistito. Questa è l’esito di una valutazione politica che si svolge nelle aule di Camera e Senato in base al dibattito attuale che è sospinto da una sinistra vittima dell’ideologia nichilista: nulla formalmente impedisce di far seguire alla sentenza del 2019, una nuova disciplina dell’art. 580 cod. penale (istigazione al suicidio) per esempio distinguendo fra la posizione di chi non ha alcun legame col paziente e coloro che invece da più tempo soffrono col paziente in virtù della costante vicinanza a lui; la seconda posizione è evidentemente diversa e tollera una sanzione meno grave, pur mantenendosi il giudizio negativo dell’ordinamento su ogni condotta di aiuto al suicidio.
Questo per scardinare l’assioma falso secondo cui saremmo in un paese che non legifera sul diritto a non soffrire. A tal proposito ricordo che la legge 38/10 sulle cure palliative è stata pionieristica in tutto il mondo e ha constato l’inserimento delle stesse nei livelli essenziali di assistenza. Semmai è cinico non valutare appieno ciò che le sentenze citate esprimono sulla necessità di aumentare l’accesso alle cure palliative. Il senso della proposta di legge che reca come prima firma quella di Alessandro Pagano, che andrà in discussione in Parlamento, va infatti in questa direzione: dovrebbe rendere effettivo il ricorso alle cure palliative, come è richiesto dalla Consulta, con la presa in carico del paziente da parte del Servizio sanitario nazionale al fine di praticare un’appropriata terapia del dolore.
Di fronte alla volontà di legiferare sul tema del Fine Vita, è urgente farsi delle domande sul perché del dolore e della sofferenza, ma anche, quale è il significato della vita quando essa è gravata da malattie allo stadio avanzato, come assistere i malati gravi e terminali, come accompagnare i familiari e quanti seguono un loro caro alla conclusione della vita fisica, quali diritti del malato terminale vanno riconosciuti e garantiti dall’ordinamento statale e dalle strutture sanitarie e quali limiti deve porsi il progresso medico di fronte alla vita che non può essere offerta solo come biologia ma nella sua accezione più completa.
E ’inaccettabile che domande di cosi alto livello siano oggetto di approcci riduttivi, gettate in un tritacarne ideologico, filtrate magari dalla tv generalista che strutturalmente è orientata alla sensazione più che alla riflessione o peggio alla piazza, anche essa per natura votata all’emotività.
Il modo di intervenire sul tema del Fine Vita, si deve muovere in un contesto di confronto e dialogo, per contribuire ad una riflessione che permetta a tutti e reciprocamente di approssimarsi ad una verità pienamente al servizio della persona. Il fatto che il Consiglio regionale toscano, con un tentativo naufragato ieri in Abruzzo, abbia dato seguito arbitrariamente alle sentenze della Corte Costituzionale, mediante strumenti che creano solo confusione, contribuisce a creare una confusione senza significato ed ha il sapore della vana ricerca di consenso politico. Si rimane molto perplessi di fronte al tentativo in atto da parte di alcuni Consigli regionali di sostituirsi al legislatore nazionale con il rischio di creare una babele normativa e favorire una sorta di esodo verso le Regioni più libertarie, come anche destano anche preoccupazione i pronunciamenti di singoli magistrati su questa materia così complessa e delicata.