Quinta lettera in tempo di guerra di don Filippo Morlacchi, Responsabile Casa Filia Sion a Gerusalemme
Gerusalemme, 8 dicembre 2023, Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria, Figlia di Sion e Regina di Palestina
Una serie di coincidenze cronologiche mi spinge a scrivere di nuovo… Oggi, 8 dicembre, celebriamo la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria; ieri, 7 dicembre, ricorrevano due mesi esatti dal tragico evento che sta cambiando il profilo della Terrasanta; ma in serata si è celebrato anche l’inizio della festa ebraica di Hanukkah, la “festa delle luci”, che ricorda la riconsacrazione del Secondo Tempio di Gerusalemme ad opera di Giuda Maccabeo nel 165 a.C. (cfr 1Macc 4). Insomma, un intreccio di luci e di ombre che ha bisogno di essere decifrato con intelligenza e – per chi ne ha la grazia – vissuto con fede.
Tante cose sono successe da quando, circa un mese fa, ho scritto l’ultima lettera aperta. Provo a riassumere brevemente gli eventi che mi sembrano più rilevanti. In primo luogo, la tregua umanitaria, ovvero la sospensione del lancio dei potenti missili israeliani e dei rudimentali razzi di Hamas.
Non un definitivo “cessate il fuoco”, come aveva chiesto e sperato il Papa, ma solo una pausa temporanea. Scopo principale della tregua è stato lo “scambio di prigionieri” tra le parti. L’accordo prevedeva la restituzione di 50 ostaggi israeliani da Gaza in cambio della liberazione di 150 prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane, da svolgersi in 4 giorni di tregua, eventualmente prolungabili per incrementare il numero di persone scambiate, al ritmo di dieci al giorno. La mattina del 24 novembre la tregua, nonostante la trepidazione di tutti, ha effettivamente avuto inizio, ed è durata sette giorni, fino al 30 novembre. Hamas ha rilasciato 110 ostaggi (più del doppio di quanto era stato concordato; quasi tutti donne o bambini): 86 erano israeliani e 24 di altre nazionalità.
Secondo fonti israeliane, restano da liberare ancora 118 uomini e 20 donne; la maggior parte di loro sono militari. Israele invece ha rilasciato 240 prigionieri palestinesi, incarcerati con condanne definitive per delitti di varia natura o in semplice detenzione amministrativa (in attesa di giudizio):
83 donne e 157 maschi; questi ultimi erano tutti bambini, ragazzi o minori di 19 anni. Numero più alto del previsto, dunque, ma inferiore alla proporzione di “tre a uno” concordata in origine. Il 1° dicembre le ostilità sono riprese, come le autorità israeliane avevano annunciato, con attacchi via terra e violenti bombardamenti, anche nella metà sud della striscia di Gaza, dove ormai si trovavano radunati quasi tutti i 2,2 milioni di abitanti, in cerca di sopravvivenza. Le fonti di Gaza riferiscono che al 7 dicembre sono state uccise più di 17.000 persone, delle quali quasi 8.000 erano bambini e più di 5.000 donne. A questi si dovranno sommare le centinaia o migliaia di persone rimaste sepolte sotto le macerie e i cui corpi non sono stati recuperati. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver neutralizzato “oltre 5.000 terroristi di Hamas”, di cui oltre un migliaio “sul suolo israeliano” (cioè coloro che erano entrati in Israele per commettere l’eccidio del 7 ottobre, uccisi il giorno stesso dall’intervento dell’esercito israeliano). Se così fosse, in base ai numeri dichiarati tutti i maschi adulti uccisi dai bombardamenti israeliani – escludendo cioè le donne e i bambini – sarebbero stati militanti di Hamas…
Per quanto riguarda le condizioni dei superstiti, ormai lo stato di crisi umanitaria ha raggiunto livelli di tragicità. A Gaza il 60% delle unità abitative risulta demolito o danneggiato. Sono state danneggiate anche tre chiese, più di 100 moschee e oltre 300 scuole (circa la metà di quelle esistenti; ma nessuna scuola, ovviamente, è più in funzione). Dei 36 ospedali, 22 sono totalmente fuori servizio, e gli altri fanno quel che possono. L’ultimo mulino di Gaza è stato distrutto il 15 novembre, e per avere una razione di cibo dagli aiuti umanitari si calcola che la popolazione aspetti in media 5 ore. Quasi 2 milioni di abitanti (circa l’85% della popolazione) sono considerati “internally displaced persons”, ossia persone costrette ad abbandonare la casa e cercare rifugio, ma essendo loro impedito di uscire dai confini nazionali, tecnicamente non si definiscono “rifugiati”. I più fortunati vivono nei circa 150 campi profughi allestiti dai soccorsi internazionali nella zona sud della Striscia, vicino al confine con l’Egitto. Ma i bombardamenti stanno arrivando anche lì, per snidare gli uomini nascosti nei tunnel, e la gente comune non ce la fa più a muoversi per sfuggire ai missili e ai carrarmati. Anche perché praticamente non esistono zone realmente sicure. La sete, la fame e gli spostamenti continui in cerca di riparo rendono spesso le persone aggressive, talvolta anche contro i responsabili della distribuzione degli aiuti. Siamo vicini al tracollo di tutte le strutture di vita civile.
Dal canto suo, Israele piange i circa 1.200 morti del 7 ottobre, inclusi 36 bambini, e soffre infintamente per i 138 prigionieri ancora nelle mani del nemico. I soldati israeliani uccisi sono più di 400, di cui almeno 93 dall’inizio dell’operazione militare di terra. Emergono accuse di diffuse violenze contro le donne da parte dei terroristi di Hamas, anche se sembra difficile fornirne le prove; la diffidenza di alcuni ha suscitato vivaci polemiche. La società ebraica prosegue la sua vita, ma con fatica ed angoscia. Il 7 ottobre ha risvegliato in tutti l’incubo della Shoah. Nelle università non è ancora iniziato l’anno accademico, per una ragione tragicamente semplice: tutti gli studenti sono stati richiamati al fronte. Le scuole, invece, grazie a Dio sono in servizio; ma il pensiero corre altrove. Gli psicologi stanno svolgendo un colossale lavoro per aiutare gli ostaggi liberati e i parenti delle vittime.
Circa 126.000 israeliani hanno dovuto abbandonare le loro case situate nei pressi della striscia di Gaza, o anche al confine nord, minacciato dai missili provenienti dal Libano. La maggior parte di loro è ospitata da parenti oppure negli hotel sparsi intorno al Mar Morto o in altre località israeliane; del resto, turisti non ce ne sono più… Anche queste persone tecnicamente sono “internally displaced”, anche se in condizioni ben migliori della gente di Gaza. Ma nessuno può calcolare l’angoscia, il dolore, la disperazione e perfino il senso di colpa dei sopravvissuti alla strage (“perché non sono morto/a anch’io?”). Ognuno ha la sua tragedia, e vive quella.
Eventi significativi – e non felici – si devono infine registrare anche nei territori palestinesi. Dal 7 ottobre ad oggi 258 palestinesi sono stati uccisi nella “West Bank” e a Gerusalemme; di loro, 67 erano bambini o ragazzi minorenni. Tra gli uccisi – bisogna ricordarlo – si contano anche gli autori di attacchi terroristici, come ad esempio i due attentatori che il 30 novembre hanno sparato davanti ad una fermata dell’autobus di Gerusalemme, uccidendo tre ebrei e ferendone un’altra mezza dozzina. O il diciassettenne che, sempre a Gerusalemme, il 6 novembre ha ucciso una poliziotta di 20 anni, accoltellandola davanti alla porta di Erode. Nella maggior parte dei casi però si trattava di giovani uccisi perché reagivano all’arresto di amici palestinesi da parte dell’esercito israeliano. Non va dimenticato, infatti, che dal 7 ottobre ad oggi più di 3.000 persone – sì, 3.000! – sono state arrestate nei territori palestinesi dall’esercito israeliano, spesso in detenzione amministrativa, cioè non per reati commessi o almeno presunti, ma per “scongiurare possibili reati futuri”, senza precisi capi di accusa. Altre volte le uccisioni si sono verificate nel corso di proteste anti-israeliane o manifestazioni pubbliche di solidarietà alla popolazione di Gaza. Una decina di vittime, infine, si contano a causa delle aggressioni da parte di civili israeliani (i cosiddetti settlers o coloni): molti sono armati, e in più, ora che i veterani dell’esercito sono stati richiamati sul fronte di Gaza, vengono arruolati come “riservisti”. Perciò hanno nuova autorità e nuove armi per imporsi sui palestinesi, i quali si sentono sempre più minacciati e intimoriti. Evitano i check-point e non si avvicinano ai militari per timore che questi aprano il fuoco anche senza ragione. O solo perché, a loro volta, temono attentati e aggressioni da parte dei palestinesi.
Oltre a queste tragiche morti, la Palestina vive un tracollo economico. Betlemme, che soprattutto durante il periodo natalizio vive degli introiti dei pellegrini, dal 7 ottobre è praticamente deserta. Non è facile raggiungerla, neppure da Gerusalemme, in particolare perché deve usare i mezzi pubblici. Il check-point “300”, quello più comodo e diretto, è sempre chiuso. L’autobus che, aggirando quel check-point, raggiungeva Betlemme attraversando la vicina cittadina di Beit Jala, si ferma ad un posto di blocco militare prima di entrare in paese, e da lì bisogna proseguire a piedi, se i soldati ti fanno passare. Soltanto alcune categorie di lavoratori sono autorizzate ad attraversare la frontiera, ed esclusivamente nelle ore in cui è concesso; a molti non è consentito il transito quotidiano, e se vogliono lavorare in Israele devono dormire tutta la settimana oltre confine. La percezione di insicurezza è pervasiva. Molte persone sono preoccupate per il loro futuro, anzi spesso disperate. La sofferenza accresce il risentimento verso Israele, da parte degli adulti e soprattutto dei giovani, che si vedono soffocati e senza prospettive. Temo che gli attentati palestinesi nelle prossime settimane possano intensificarsi. Ovviamente non è una reazione giustificata, perché la violenza non è mai accettabile: Ma vedendo come soffre la gente, se ne può comprendere la causa.
Nelle scuole cattoliche si continua a parlare di amore, di speranza, di pace; ma un’ombra di tristezza attraversa il volto di molte bambine e molti bambini.
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Questi, in breve, mi sembrano gli eventi principali di quest’ultimo mese in Terrasanta. Quali riflessioni possono suggerire, alla luce della nostra fede? Ne propongo quattro, per chi avrà la pazienza di leggere fino alla fine questa lunghissima lettera.
1) Le notizie da Gaza, almeno in Italia, sono meno seguite. Altre vicende – anch’esse tragiche, spesso – hanno guadagnato la luce dei riflettori. Del resto, era già successo con la guerra in Ucraina, e con tutte le altre: dopo un po’ di tempo, i bombardamenti e i morti non fanno più notizia. Il prurito di sbirciare immagini “forti” con il tempo si estingue, anzi fa capire che ne siamo stati intossicati. E qui propongo un primo spunto di riflessione, che riassumerei così: “guarda positivo!”.
Ho già accennato al “conflitto mediatico” che si sovrappone alla guerra reale. In questa battaglia parallela, a volte si ostentano immagini brutali che possano inchiodare la controparte alle sue colpe; altre volte si esibiscono le proprie efferatezze per terrorizzare il nemico; in un caso come nell’altro, siamo esposti ad una ferocia che turba nell’intimo. Mi ha colpito positivamente, perciò, un fenomeno che ho registrato durante i giorni della tregua e del rilascio dei prigionieri: la circolazione nel web di contenuti che mostravano la felicità dei parenti nel riabbracciare i propri cari. Il video di un bambino che rivede il papà e gli si fionda addosso, o di un cane che fa festa ai suoi padroncini ritornati a casa, leccandoli affettuosamente… Erano immagini tenere e luminose, che almeno per un po’ di tempo hanno preso il sopravvento su quelle tragiche di morte e distruzione. Sì, avevamo tutti bisogno di una pausa, di un briciolo di bellezza in tanto orrore, di immagini di festa e di gioia, di incontro e di riconciliazione, di tenerezza e di amore.
Quando posso, mi piace tanto andare all’aeroporto a prendere gli ospiti che arrivano a Gerusalemme perché, mentre aspetto, nella hall degli arrivi mi capita sempre di assistere a scene commoventi: parenti o amici che si abbracciano e si baciano, festeggiano la gioia di rivedersi, sperimentano la bellezza di esserci l’uno per l’altro. Adoro queste effusioni di limpido affetto, e mi sorprendo a sorridere mentre le guardo. Lo trovo terapeutico e disintossicante, mi riempie il cuore di gioia.
La “fame di scene di amore” che ho colto durante la settimana di tregua mi sembra un invito ad educare il nostro sguardo: far entrare nella casa del cuore, attraverso le finestre degli occhi, solo ciò che rende più luminoso e bello il nostro mondo interiore. Saturiamoci non di orrore, non di odio, non di squallore, ma di quella bellezza “che salva il mondo”, come scriveva Dostoëvskij. Da tutto si può imparare qualcosa: le tragiche vicende di questi mesi ci possono insegnare l’importanza di “custodire lo sguardo” e “coltivare l’interiorità”.
2) Un secondo tema di riflessione lo traggo dall’incontro fraterno che abbiamo vissuto martedì scorso, 5 dicembre, fra sacerdoti del Patriarcato Latino. Dopo la preghiera, abbiamo iniziato con gli aggiornamenti sulla situazione politica e sociale: prima quella di Gaza (c’era anche p. Gabriel, il parroco1, che ancora non può andare a trovare i suoi parrocchiani…), poi quella di varie località della Palestina, i cui parroci hanno anch’essi espresso grave preoccupazione e dolore, pur senza cedere allo sconforto. È stato poi affrontato un delicato argomento pastorale: come conciliare il dovere di celebrare con gioia il Natale imminente con l’altrettanto doverosa solidarietà nei confronti chi soffre e muore, a Gaza e altrove? In un comunicato del 10 novembre, i capi delle Chiese hanno esortato tutti i cristiani di Terrasanta, pastori e fedeli, a concentrare l’attenzione sul significato spirituale delle festività. Ridurre le manifestazioni esteriori servirà sia per risparmiare – la guerra produce sempre povertà –, sia per raccogliere aiuti per bisognosi e sofferenti, sia infine per evitare festeggiamenti frivoli, del tutto inopportuni in questo tempo così triste. E così il sabato che precede la prima domenica d’Avvento il Custode di Terrasanta, secondo quanto previsto dallo status quo, ha fatto il suo ingresso solenne, da Gerusalemme alla Basilica della Natività di Betlemme. Gli scout che lo scortavano però erano pochi, e non suonavano le cornamuse e i tamburi come sempre. Un ingresso solenne, dunque, ma molto austero. A conclusione degli interventi dei sacerdoti, il Patriarca ha esortato a non cancellare del tutto la gioia del Natale, soprattutto pensando ai bambini. Il Natale è in primo luogo una festa dei piccoli – ha detto – che hanno bisogno di parole di dolcezza, di consolazione, di speranza, di luce, di gratuità. Dobbiamo trovare un sano equilibrio: il Signore verrà anche in questo difficile Natale. «Egli viene a salvarci» (antifona per l’invitatorio d’Avvento), la sua luce «splende nelle tenebre» (Gv 1,5). Sarà l’occasione per capire che la gioia e la pace del cristiano non sono come quelle “del mondo” (cfr Gv 14,27), e che la consolazione di Dio si sperimenta anche in mezzo alle tribolazioni (cfr 2Cor 1,4-5; 7,4; 8,2). Questo Natale avrà un connotato “pasquale” – cioè di morte e risurrezione – più marcato del solito. Sta a noi aiutarci gli uni gli altri a comprenderlo e a viverlo così.
3) Il terzo spunto di riflessione riguarda un tema che mi è molto caro: il dialogo ebraico-cristiano. Gli appelli del Papa a favore della pace e della cessazione delle ostilità, e il fatto che abbia voluto incontrare nello stesso giorno parenti degli ostaggi israeliani e palestinesi colpiti dalle conseguenze della guerra, sono dispiaciuti a molti fratelli ebrei. «Gelida equidistanza», si legge in un comunicato del Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia (23 novembre), «si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito». E ancora: «Ci domandiamo a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico cristiano…». Parole molto severe, di rimprovero aspro e amareggiato. Che però non riesco a condividere. Credo infatti che il dialogo sia realizzi sempre nella Verità. Noi cristiani – tutti, Papa compreso – cerchiamo di dire e di fare quello che comprendiamo del Vangelo. E se il Vangelo ci suggerisce di dire parole scomode, anche noi, come gli Apostoli, «non possiamo tacere» (At 4,20).
In passato alla Chiesa sono stati rimproverati silenzi colpevoli. A ragione, probabilmente. Ebbene:
anche per questo, oggi credo che siamo tenuti a non tacere davanti ai nostri fratelli ebrei. Esprimeremo un punto di vista sgradito, forse, ma sincero. È il nostro contributo al comprensione della Verità. Può capitare talvolta che le opinioni e i giudizi ci dividano; non per questo si devono tradire la fraternità e l’amicizia. Possiamo – anzi: dobbiamo – tenere il punto, senza cedere a pressioni e senza pronunciare parole di assenso, dette solo per compiacere le aspettative altrui. Non sarebbe onesto sposare scelte e atteggiamenti che non condividiamo, solo per amore del “dialogo”. Al contrario, credo sia un gesto di carità fraterna e di sincera amicizia dire: cari fratelli, noi siamo risolutamente contro l’antisemitismo, in ogni sua forma, non vogliamo la morte di nessuno di voi, e ci impegniamo perché quegli orrori – di cui siamo anche in parte storicamente corresponsabili – non si ripetano mai più. Proprio per questo vi chiediamo: fermate la violenza su Gaza, che colpisce tutti, senza fare distinzione – vorrei dire: «con gelida equidistanza» – tra “possibili colpevoli” e “sicuramente innocenti”. Un bambino non è un “potenziale terrorista”: è un bambino. Credo sia nostro dovere ostinarci a ripetervi che questa devastazione totale sta moltiplicando l’odio di tanti verso di voi, figli d’Israele, e rischia di condurvi a nuove sofferenze che noi assolutamente non vogliamo, condanniamo e fermamente ripudiamo.
Per noi, cari fratelli, ogni vita ebraica è preziosa. Esattamente come lo è quella di ogni essere umano, creato a «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,26). Questa consapevolezza, raccolta e poi insegnata da Gesù, ha assunto un ruolo crescente nella dottrina cristiana, fino ai nostri giorni. Per questo motivo, insieme a tanti uomini di buona volontà, chiediamo rispetto e tutela anche per la popolazione inerme di Gaza. È giusto che il popolo d’Israele si difenda dalla minaccia di Hamas; ma deve farlo evitando di sterminare «il giusto con l’empio» (Gen 18,23). La vita di migliaia di bambini innocenti di Gaza non è un “danno collaterale accettabile”. E non lo è neanche quella di donne e uomini adulti, che probabilmente odiano Israele, e magari arrivano perfino a contestare il suo diritto ad esistere come Stato, ma non per questo sarebbero disposti ad uccidere, né possono essere accusati indistintamente di essere tutti terroristi.
Peraltro, per quanto riesco a capire, queste considerazioni non sono del tutto estranee al pensiero ebraico. Nel Talmud ho letto un insegnamento che invita ad astenersi dall’uccidere il nemico perfino in caso di legittima difesa. «Da dove deriviamo questa norma […] secondo cui uno deve lasciarsi uccidere piuttosto che commettere un omicidio? La Gemara risponde: Si basa sul ragionamento logico che una vita non è preferibile a un’altra, e quindi non c’è bisogno di un versetto biblico per insegnare questa dottrina. La Gemara racconta un caso per dimostrarlo: Come quando una certa persona venne davanti a Raba2 e gli disse: Il governatore del mio paese, un funzionario locale, mi ha detto: Va’ a uccidere così e così, e se non lo fai, io ucciderò te. Cosa devo fare? Raba gli disse: “È preferibile che sia lui a uccidere te, e non che tu uccida quel tale. Che argomenti hai, infatti, per dire che il tuo sangue è più rosso del suo – cioè che la tua vita vale più di quella che lui vuole che tu uccida? Forse il suo sangue è più rosso…”. Questo ragionamento logico – conclude il commento – è la base della norma secondo cui non è possibile salvare la propria vita uccidendone un’altra» (Pesachim 25b 4). Anche la vita di un povero bambino di Gaza è preziosa. Anche il suo sangue è rosso. Perché – ed è sempre la tradizione ebraica a insegnarlo, ma questa massima la conosciamo tutti – «chi salva una vita, salva il mondo intero».3
4) Un’ultima considerazione desidero farla sull’opportunità di “prender posizione” tra gli opposti schieramenti. È sotto gli occhi di tutti che le fazioni si stanno sempre più estremizzando, e si moltiplicano gli appelli ad appoggiare una parte o l’altra. Possiamo chiederci: noi, come cristiani, da che parte dobbiamo stare? Per me la risposta è cristallina da quando avevo circa 15 anni. A quel tempo facevo l’“aiuto catechista” ai bambini delle cresime, e nel preparare con grande zelo un incontro di catechesi (sì, sono sempre stato un po’ “secchione” in tutto…) mi sono imbattuto in una lettera di don Lorenzo Milani. Attraverso quelle poche righe, che mi sono rimaste impresse nella memoria, penso di aver capito una volta per tutte il nucleo centrale della dottrina sociale della Chiesa.
È il 1950. Nel 1948 la DC ha vinto la battaglia elettorale contro il PCI. Don Milani si rivolge ad un suo amico comunista, chiamato Pipetta, spiegandogli perché lui, prete, difende i poveri come se fosse un membro del PCI. «Pipetta – scrive don Lorenzo – è un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori… Il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me: quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. […] Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri, perché il Regno dei Cieli è loro”».
Quel pomeriggio, da catechista adolescente, ho capito che il cristiano sta sempre dalla parte degli ultimi, dei poveri, dei perdenti e dei sofferenti. Sì, dobbiamo stare sempre con gli ultimi: anche a costo di cambiare posizione ogni volta che i perdenti siano diventati vincitori. Questo è ciò che distingue il Vangelo dall’ideologia comunista. Questo è ciò che faceva dire a don Milani: «ricordati Pipetta: quando tu vincerai, quel giorno io ti tradirò». Gesù ha scelto gli ultimi e i poveri, sempre. Accoglieva anche i ricchi e i potenti; ma ha scelto gli ultimi e i più abbandonati. L’Abbé Huvelin, il padre spirituale di Charles de Foucauld, aveva detto in un’omelia: «Gesù ha talmente preso l’ultimo posto che nessuno potrà mai più strapparglielo». Charles accolse risolutamente queste parole, e ne fece l’ispirazione fondamentale della sua vita, scegliendo per sé l’ultimo posto, insieme a Gesù.
Questa, dunque, è la posizione che, come cristiani, siamo chiamati a prendere: accanto a chi soffre di più. Sempre dalla parte delle vittime, a qualunque etnia o religione o gruppo appartengano. «Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del Pastore» (S. Giovanni Crisostomo, Omelia 33 sul Vangelo di Matteo). Rimaniamo sempre dalla parte degli ultimi, dalla parte dei perdenti, dalla parte di chi soffre, dalla parte degli agnelli. In quel giorno, ci penserà Lui, l’Agnello immolato, a donare la vittoria e il premio.
***
Giorni fa, predicando il ritiro della prima domenica di Avvento nel romitaggio del Getsemani, guardavo dall’altra parte del torrente Cedron, verso la Città Santa. Osservavo, ai piedi delle mura orientali di Gerusalemme, una fila di sgargianti bandiere israeliane che garrivano orgogliosamente al vento. Ho pensato: le grandi profezie della Scrittura si compiranno non quando quelle bandiere saranno strappate – no: ma quando lì sventoleranno, alternate, equidistanti e della stessa dimensione, bandiere israeliane e palestinesi. In quel giorno si potrà dire: «il lupo dimorerà con l’agnello… la mucca e l’orsa pascoleranno insieme, i loro piccoli si sdraieranno insieme… non agiranno più iniquamente, né saccheggeranno in tutto il mio santo monte… In quel giorno avverrà che la radice di Jesse sarà un vessillo per i popoli…» (cfr Is 11,6-11).
Chissà se lo vedrò mai, quel giorno. Oggi, in tutta onestà, credo di no. Mi sembra troppo lontano. Ma non smetto di pregare perché quel giorno venga, e venga presto. Sotto la protezione dell’Immacolata Madre di Dio, in attesa che si manifesti il «Principe della Pace» (Is 9,5), auguro fin d’ora a tutti un Santo Natale.
1 Una sua intervista del 30 novembre si trova sul sito web del Patriarcato Latino: https://www.lpj.org/posts/an-inter-view-with-fr-gabriel-romanelli-parish-priest-of-gaza.html?s_cat=1102.
2 Rav Abba ben Joseph ben Khama, detto Rabà (o Ravà): maestro morto nel 352 d.C., esponente degli amoraîm babilonesi, apprezzato per il suo acume intellettuale.
3 Qui la questione si fa interessante, ma è un po’ per “addetti ai lavori”. La massima è diventata famosa con il film Schindler’s list, ma la sua origine risale alla Mishnah (III secolo). Nel trattato Sanhedrin (cap. IV), a proposito della pena capitale, si legge, per sottolineare la pesante responsabilità di chi la commina: «Perciò Adamo [da cui discende tutta l’umanità] fu creato singolarmente, per insegnarci che chiunque distrugge una singola vita in Israele è considerato dalla Scrittura come se avesse distrutto il mondo intero, e chiunque salva una singola vita in Israele è considerato dalla Scrittura come se avesse salvato il mondo intero». Alcuni codici antichi non riportano le parole “in Israele”, che sembrano essere un’interpolazione tardomedievale: forse dunque il testo originale aveva un’apertura universalistica che poi è andata perduta. L’interpretazione più diffusa oggi è coerente con questa apertura, tanto che il detto viene applicato anche ai “giusti tra le Nazioni”, come Oskar Schindler. Tale opinione sembra anche confermata dal fatto che un testo quasi identico, e senza l’inciso “in Israele”, si trova – ma tu guarda! – nel Corano (VII secolo): «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno [= astenendosi cioè dall’ucciderlo], sarà come se avesse salvato tutta l’umanità. I Nostri Messaggeri sono venuti a loro con le prove! Eppure molti di loro commisero eccessi sulla terra» (Sura 5,32). Sembra lecito dedurne che Maometto riteneva che il precetto fosse di origine biblica, e rimproverava agli ebrei di non averlo osservato, nonostante gli inviti dei profeti (cioè i “Nostri Messaggeri” citati alla fine). Purtroppo, in questi ultimi mesi, il precetto è stato tragicamente violato sia da musulmani che da ebrei. E in passato – dobbiamo ammetterlo – anche da noi cristiani…