Domenica di Pentecoste
Quando Paolo giunge ad Efeso, trova alcuni discepoli e chiede loro: “Avete ricevuto lo Spirito Santo, quando siete venuti alla fede?”. La risposta lo stupì: “non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo”. Se oggi facessimo la medesima domanda a tanti cristiani, probabilmente riceveremmo una risposta simile. Sanno che c’è lo spirito Santo, ma è tutto quello che sanno di lui; per il resto ignorano chi è e che cosa rappresenta per la loro vita. Nell’anno liturgico la Pentecoste è un’occasione formidabile per fare (ri)scoprire questa presenza discreta ed essenziale nella nostra fede. Oggi noi vediamo guerre, sangue, scontri e ci viene detto che è questo l’unico modo per cambiare in profondità la società. Solo le rivoluzioni hanno fatto la storia. Invece la storia della salvezza ci insegna un’altra cosa: ogni nuovo inizio, ogni salto di qualità si è attuato grazie allo speciale intervento dello Spirito Santo: le sue manifestazioni sono come sprazzi di luce che si sono intensificati, fino a toccare l’esplosione di lingue di fuoco della Pentecoste. I Padri della Chiesa lo sapevano bene. San Basilio scriveva: “Pensi alla creazione? Essa fu operata nello spirito Santo che consolidava e ornava i cieli. Pensi alla venuta di Cristo? Lo Spirito l’ha preparata e poi nella pienezza dei tempi l’ha realizzata discendedo su Maria. Pensi alla formazione della Chiesa? Essa è opera dello Spirito Santo? Pensi alla parusia? Lo Spirito non sarà assente neppure allora, quando si rivelerà dal cielo il nostro Salvatore”.
Dopo che Gesù è stato glorificato alla destra del padre nel mistero dell’Ascensione, gli apostoli e alcuni discepoli vivono nascosti e impauriti, senza sapere cosa fare e cosa significhi il comando di andare in tutto il mondo a predicare il Vangelo. Quella comunità è ancora un corpo inanimato e inerte, come quella terra informe e deserta all’inizio della creazione nella Genesi, come il primo uomo formato dal fango della terra, quando Dio ancora non aveva soffiato il suo alito di vita. E come lo Spirito di Dio venne sopra quella creazione inerte e fu la luce, l’ordine e l’armonia e come lo Spirito rese quell’uomo primordiale a sua immagine e somiglianza, così nel giorno di Pentecoste si rinnova il prodigio che ha segnato tutti i grandi inizi della storia. Il piccolo gregge diventa Chiesa, il corpo di Cristo riceve lo Spirito che, nell’incarnazione, aveva fecondato il Capo, nel grembo di Maria. Nel Credo lo Spirito è infatti detto vivificante, che dà la vita. Clemente di Alessandria chiamava lo Spirito Santo “l’acqua celeste che irriga il deserto della terra e lo trasforma in paradiso” e notava che, come l’acqua è sempre la stessa, eppure nella rosa è rosacea, nel giglio è bianca e nella viola è violacea, allo stesso modo l’unico Spirito in un uomo ispira il martirio, fa dell’altro un profeta, dell’altro un maestro, cioè dà a ciascuno il suo volto spirituale. Tutta la ricchezza delle manifestazioni della vita cristiana sono conseguenze dello Spirito Santo: San Paolo li chiama i carismi. E questi doni, molti e di varie forme, costituiscono la multiforme sapienza di Dio riversata su di noi.
Il segno più visibile che qualcosa di nuovo è avvenuto è la riunificazione del linguaggio umano, il segno della ritrovata unità del genere umano. Riprendendo il pensiero di Sant’Agostino, un vescovo del VI secolo diceva: “Se qualcuno mi dice, hai ricevuto lo Spirito Santo, per quale motivo allora non parli tutte le lingue, risponderò, certo che parlo tutte le lingue, sono infatti inserito in quel corpo di Cristo che è la Chiesa che parla tutte le lingue”, perché la Chiesa comprende e valorizza la cultura, il patrimonio e la lingua di ogni popolo. Nel giorno di Pentecoste ci stringiamo intorno alla Chiesa per invocare su di noi e sul mondo lo Spirito Santo, che è anche il Paraclito, lo Spirito di consolazione, il nostro avvocato nella lotta che dobbiamo affrontare nel mondo. È spirito di riconciliazione, spirito di unità, spirito di pace, ma più di tutti è la carità il segno più manifesto dello Spirito.
Gesù ci manda lo Spirito perché ci possa condurre a conoscere interamente la verità sulla vita divina; la verità, però, non è un’idea o un concetto, la verità è una relazione. Andare verso la verità significa essere inseriti nella stessa relazione che Gesù ha con il Padre. Quando lo Spirito Santo discende sopra i discepoli e dimora in loro, come dimora in noi, la vita viene trasformata in una vita contrassegnata dallo stesso amore che c’è tra il Padre il Figlio. Cos’è la vita spirituale, se non una vita in cui noi veniamo elevati ad essere partecipi della vita divina? La vita spirituale però non ci allontana dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso: se siamo diventati i figli e figlie, come Gesù era figlio, la nostra vita diventa la prosecuzione della missione di Gesù per continuare e portare a termine la sua opera. Dopo l’Ascensione e la Pentecoste c’è un non-detto, un silenzio di Cristo, di cui si fa interprete nella storia lo Spirito. Se lo vogliamo veramente, la vita nello spirito è veramente inizio di una vita nuova in Cristo e nella Chiesa.
Gregorio Magno, Omelia tenuta il giorno di Pentecoste
Percorriamo brevemente la pagina evangelica, per poter soffermarci più a lungo a contemplare il mistero che oggi celebriamo. Oggi infatti lo Spirito santo, con un rombo improvviso, si posò sugli apostoli, trasformò nel suo amore le loro menti carnali, e, mentre fuori apparvero lingue di fuoco, dentro i cuori si infiammarono; perché accogliendo Dio che si manifestava nel fuoco, arsero soavemente di amore. Ecco perché Giovanni dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Quindi chi desidera Dio con tutta l’anima, possiede già colui che ama. Nessuno infatti potrebbe amare Dio se non possedesse colui che ama.
Ora, se si chiedesse a qualcuno di voi se ama Dio, egli risponderebbe con tutta la fiducia e la sicurezza dell’anima: “Sì, lo amo!”. All’inizio del brano evangelico, avete sentito che cosa dice la Verità: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). La prova dell’amore è dunque la testimonianza delle opere. Così il medesimo Giovanni nella sua lettera dice: “Chi dice: Io amo Dio, ma non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo” (1Gv 4,20). Noi amiamo veramente Dio e osserviamo i suoi comandamenti se teniamo a freno le nostre passioni. Chi cede ancora ai desideri illeciti vuol dire che non ama Dio, perché si oppone alla sua volontà.
“E il Padre mio lo amerà e noi verremo da lui e presso di lui stabiliremo la nostra dimora” (Gv 14,23). Pensate quanto è grande questa dignità: accogliere Dio come ospite nel nostro cuore! Se un amico ricco e potente entrasse in casa nostra, certo ci si metterebbe a prepararla in ogni angolo con grande premura togliendo tutto ciò che potrebbe offendere l’occhio dell’amico che vi entra. Chi dunque vuol preparare a Dio una dimora nella sua anima, la ripulisca da ogni sozzura … Rientrando in voi stessi chiedetevi se davvero amate Dio, e non accettate una risposta affermativa se non c’è la conferma delle opere. Sull’amore di Dio dobbiamo esaminare le nostre parole, la mente, la vita. L’amore di Dio non è mai ozioso: compie grandi cose, se c’è in noi; se non si concretizza nelle opere, non è amore.