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Mercoledì della VI settimana di Pasqua. Il Tempo di Pasqua con Gregorio Magno

by | 8 Mag 2024 | Monasteria

Mercoledì della VI settimana di Pasqua

Ai tempi di Paolo la splendida Atene dell’epoca classica era ormai l’ombra di se stessa, ma dal punto di vista culturale e filosofico rappresentava ancora il cuore dell’impero romano, il luogo più vivo dell’Occidente dove andava a formarsi la classe dirigente. Il confronto di Paolo con i filosofi all’Areopago ha un alto valore simbolico. È un modello di inculturazione: il messaggio evangelico entra in dialogo con la filosofia greca, dialogo che poi avrebbe portato avanti Giustino, l’apologeta che si definiva filosofo e che morì martire per amore della Verità. In genere la predicazione di Paolo ad Atene è vista come un insuccesso, perché sono stati pochi ad aderire al suo messaggio, tanto da ricordarne i nomi: Dionigi, Damaris e pochi altri. In realtà questo confronto con la cultura è sempre perdente all’inizio: alla Pentecoste Pietro “aveva bevuto” alle 9 mattino, ora Paolo è “ciarlatano” e viene deriso. Il cristianesimo, però, non può escludere il dialogo con nessuna cultura, perché qualsiasi cultura ha valori da comunicare alle altre. Anche se il lavoro nell’immediato dà scarsi risultati. Allo stesso tempo il dialogo non può svendere la fede cristiana e svuotare la sapienza della croce. 

Paolo infatti si adira contro gli idoli. Per gli ateniesi, almeno, queste statuette di metallo erano il segno di una presenza divina, essendo persone molto attente alla religione e a ciò che andava oltre la realtà sensibile. L’idolatria di oggi è invece il segno del nulla, perché fondata sul denaro preso agli altri, sulla violenza fatta agli altri, sull’immagine che ci costruiamo di noi stessi. La nostra immagine è il nostro dio! Non siamo più a immagine di Dio, siamo noi a immagine di noi stessi, per la quale siamo disposti a sacrificare tutto. È la morte di ogni religione e relazione.

Il punto di partenza di Paolo è affascinante: in ogni cultura, anzi ogni persona, è un sacrario “al Dio ignoto”, un Dio ignoto che si rivela nel desiderio, comune a tutti, di essere amati e di amare, di passare da un’esistenza vuota a una vita felice, bella e buona. Un Dio ignoto perché diverso da ogni rappresentazione o pacchetto di idee e nozioni di catechismo. L’uomo è da sempre attratto dall’ignoto, perché si interroga, ha sete di conoscere ed è proprio l’apertura all’ignoto il motore della scienza, della filosofia, dell’arte e di qualsiasi manifestazione della vita. Invece rischiamo di banalizzare ciò che è intimo a noi più di noi stessi, come ci ricorda Sant’Agostino. È Dio il principio di ogni bene, che va accolto e amato e con lui bisogna entrare in relazione per essere uguali a lui. Altro che autoidolatria! L’uomo porta impresso in sé il sigillo di Dio, porta in sé la somiglianza una dignità infinita. Siamo quindi veramente tutti fratelli, senza distinzione né di razza, di popolo e lo siamo per diritto divino. Ovunque sia, l’uomo ha il valore assoluto di figlio di Dio.

“Ora avendo udito risurrezione dai morti alcuni lo deridevano altri dissero: Su questo ti ascolteremo un’altra volta”. Paolo viene deriso e appare ridicolo sulla resurrezione, perché nessun uomo può sfuggire alla morte, siamo tutti mortali. Per questo i sapienti di questo mondo lo deridono, perché l’uomo ritiene possibile solo ciò che lui riesce a fare. Loro hanno solo il potere di dare la morte, non di ridare la vita; mentre il potere di Dio è proprio questo. 

Ma se uno ritiene possibile soltanto quello che riesce a fare, certo non può ritenere possibile la pienezza di vita. Con pochi convertiti, forse il frutto di questo discorso all’Areopago sembra essere stato scarso, invece è stato veramente grandissimo. Paolo ha spalancato le porte a un certo di pensare l’uomo in genere, la nostra vita, il dialogo tra fede e culture. Quando di più prezioso c’è nella cultura mondiale, i diritti fondamentali dell’uomo, con gli ideali di giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità, è frutto proprio del dialogo e dell’impatto della sapienza ebraico-cristiana con la cultura occidentale.

Gregorio Magno, Commento Morale a Giobbe III, 14, 77-79

“Lo vedrò io stesso, lo contemplerò con i miei occhi, io e non un altro”. Noi però, che seguiamo la fede del beato Giobbe e crediamo che, dopo la risurrezione, il corpo del nostro Redentore era veramente palpabile, confessiamo che la nostra carne, dopo la risurrezione, sarà la stessa e, diversa a un tempo: la stessa per natura e diversa per la gloria, la stessa nella sua verità e diversa nella sua potenza. Sarà dunque sottile, perché incorruttibile; sarà palpabile, perché non perderà l’essenza della sua vera natura. Ma con quale speranza il santo nutra fiducia nella risurrezione, con quale certezza l’attenda, lo dimostra la dichiarazione
che segue: “Questa mia speranza è riposta in fondo al mio cuore”. Niente noi crediamo di possedere con maggiore certezza, che quanto teniamo racchiuso nel cuore. Egli teneva, dunque, riposta nel suo cuore questa speranza, perché riponeva la sua vera certezza nella speranza della risurrezione. Ma poiché ha fatto conoscere il giorno futuro della risurrezione, parlando a nome suo e come rappresentante della Chiesa santa e universale, egli denuncia le colpe dei malvagi e predice il giudizio che li attende il giorno della risurrezione.
Poiché subito aggiunge: “Perché ora dite: Perseguitiamolo e troviamo la radice della parola contro di lui? Fuggite dunque di fronte alla spada, perché punitrice d’iniquità è la spada, e sappiate che c’è il giudizio”. Nella prima parte di questo intervento, Giobbe critica le azioni degli iniqui, in quella seguente fa conoscere i castighi ad essi riservati dal giudizio divino. Dato che i perversi ascoltano con cattiva intenzione le cose dette bene e desiderano trovare nella lingua del giusto l’appiglio per accusarlo, che altro cercano contro di lui, se non la radice della parola, da cui cogliere il pretesto per intervenire ed estendere, nell’accusa, i rami della loro perversa loquacità? Ma il santo, quando subisce tali cose da parte dei malvagi, non si addolora contro di loro, ma per loro, e redarguisce i loro colpevoli pensieri e mostra i mali che devono fuggire dicendo: “Fuggite dunque di fronte alla spada, perché punitrice d’iniquità è la spada, e sappiate che c’è il giudizio”. Chiunque tiene una condotta perversa, appunto perché non fa piú caso al timore, non sa che esiste il giudizio di Dio. Se valutasse bene la gravità di quel terribile esame, saprebbe guardarsi con timore dal giorno dell’ira. 

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