Dalla “fine del mondo” al cuore dell’Urbe: un Papa tra profezia e paradossi, che ha ridisegnato la mappa della Chiesa, ma senza completarne la riforma
“I miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…” Così si presentava dodici anni fa, con la voce lieve e lo sguardo sorpreso, Jorge Mario Bergoglio. Il 21 aprile, nel giorno simbolico del Natale di Roma, è proprio da quella “fine del mondo” che risuona l’eco della sua morte. Papa Francesco si è spento a 88 anni, lasciando la Chiesa cattolica in un tempo sospeso, tra la fine di un’epoca e l’inizio di un conclave incerto.
Francesco è stato un Papa delle “prime volte”: primo gesuita sul soglio di Pietro, primo latinoamericano, primo a convivere per dieci anni con un Papa emerito, primo ad incontrare il Patriarca ortodosso di Mosca. Ma è stato anche il primo a rovesciare il punto di vista della Chiesa: non più Roma che guarda il mondo, ma il mondo che guarda Roma.
Uno sguardo da Magellano
Francesco ha portato nella Chiesa uno “sguardo di Magellano”, come amava definirlo: periferico, anti-centralista, latinoamericano. Una vera e propria “deromanizzazione” della Chiesa. Non solo geograficamente, ma anche teologicamente e istituzionalmente. Francesco ha sgretolato l’immagine imperiale della Chiesa romana erede di Costantino. Ha preferito vivere nella residenza di Santa Marta invece degli appartamenti pontifici, ha rifiutato le auto blu, ha parlato la lingua dell’essenziale. Ma nel suo ultimo tratto di pontificato – segnato dalla malattia, dalla fatica e dalla memoria che vacillava – è sembrato reggersi su una tensione sempre più forte tra il desiderio di riforma e la resistenza dell’istituzione.
Una rivoluzione incompiuta?
Francesco ha tentato una riforma epocale, ma ha realizzato solo frammenti. Ha nominato l’80% dei cardinali elettori, provenienti per lo più da Paesi extraeuropei, molti da regioni dove i cattolici sono minoranza. Un gesto geopolitico potentissimo: spostare il baricentro del cattolicesimo verso il Sud globale, l’Africa, l’Asia, le periferie.
Eppure, il suo progetto di sinodalità – una Chiesa partecipata, aperta, orizzontale – è rimasto impigliato nella rete delle resistenze interne. I grandi nodi (ruolo delle donne, celibato, accoglienza LGBTQ+) sono rimasti irrisolti. Francesco ha scelto il metodo del discernimento, evitando rotture dottrinali, ma questo ha prodotto una riforma senza rottura, senza fondamenti giuridici, talvolta senza effetti visibili.
Il suo rapporto con la Curia è stato segnato da equilibri instabili: riforme economiche, razionalizzazione delle competenze, ma anche processi clamorosi, scandali non risolti e cordate interne che hanno continuato a pesare sul governo della Chiesa. La rivoluzione di Francesco è stata più profetica che operativa.
Un Papa geopolitico e ambivalente
Francesco è stato il pontefice più geopolitico degli ultimi decenni. Ha parlato di tutto: cambiamento climatico, IA, migrazioni, capitalismo finanziario, sport, robotica. Ma la sua voce, per quanto forte, è spesso rimasta solitaria e simbolica. Ha denunciato la “terza guerra mondiale a pezzi” mentre il mondo esplodeva: Ucraina, Medio Oriente, Taiwan. Ma non ha avuto strumenti reali per incidere.
La sua linea sulla guerra in Ucraina ha fatto discutere: ambiguità percepite, mancate condanne della Russia, aperture verso Mosca, comprensione delle “provocazioni NATO”. A Kiev alcuni non si fidavano più. Anche in Europa, molti dei suoi sostenitori hanno reagito con gelo e smarrimento quando Francesco ha esaltato la “grande Russia dei santi e dei governanti” parlando ai giovani russi.
La missione di pace affidata al cardinale Zuppi continua, anche se sul fronte delle ostilità non ha prodotto risultati per ora tangibili. La sua proposta di una “terza via” tra pacifismo e realpolitik è rimasta sospesa, come tante delle sue iniziative: profetiche, sì, ma senza seguito concreto.
Roma, ancora una volta al centro
Se paradossalmente, proprio nel giorno in cui Roma celebra la sua fondazione, il Papa che voleva “deromanizzare” la Chiesa è morto sotto il cielo eterno dell’Urbe, Francesco non ha mai amato l’Urbe. Da arcivescovo di Buenos Aires confessava che ogni volta che vi si recava rischiava di “perdere la fede”. Eppure, proprio da Roma ha lanciato la sua visione globale, e proprio qui si celebrerà il conclave che ne raccoglierà l’eredità.
Il sogno – ventilato da qualcuno – di una “Santa Sede itinerante”, capace di spostarsi tra Bogotá, Nuova Delhi e Johannesburg, resterà forse un’utopia incompiuta. Ma segna la profondità della sua ambizione: un papato veramente cattolico, cioè universale, non più centrato sull’Occidente.
Un conclave senza regista
Il conclave che si aprirà entro il 10 maggio è avvolto da un’incertezza radicale. Non c’è un favorito, non c’è una regia. I cardinali nominati da Francesco vengono da mondi diversissimi: l’Africa più conservatrice, l’Asia missionaria, l’America Latina in crisi, l’Europa disorientata. La Chiesa italiana è marginale, e un nuovo Papa italiano sembra improbabile.
Eppure, Roma resta il baricentro. Perché è qui che la cattolicità si è fatta universale. La lingua italiana è ancora la lingua franca del Vaticano, e il nuovo “vescovo di Roma” parlerà da questa cattedra al mondo intero.
Una Chiesa inquieta, una memoria fragile
Francesco lascia una Chiesa inquieta, attraversata da fratture tra conservatori e progressisti, tra globalismo e identità, tra fedeltà dottrinale e pastorale dell’inclusione. È stato un Papa dei gesti più che delle strutture, delle intuizioni più che delle norme. Un pontefice profetico, ma anche umano, fragile, incoerente.
La sua ultima stagione, segnata dalla malattia e dalla memoria vacillante, ha visto acuirsi la tensione tra volontà di riforma e inerzia dell’istituzione. Francesco ha tentato di riscrivere il racconto della Chiesa, ma spesso si è trovato solo, in un mondo che corre troppo in fretta.
Ora tocca al conclave. Ma la domanda vera è un’altra: la Chiesa di Francesco è stata davvero la Chiesa dei popoli – o soltanto quella dei paradossi? E il prossimo Papa sarà un Francesco Secondo, che porterà avanti le riforme avviate dal predecessore, o ci sarà un papa moderato o che addirittura farà marcia indietro?