Ricordiamo oggi l’umile e sapiente vergine domenicana, Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia, compatrona d’Europa e dottore della chiesa. Sebbene fosse di famiglia popolana e a stento sapesse leggere o scrivere, lasciò indimenticabili esempi di celeste sapienza e santiità, tanto che i suoi discepoli la chiamavano col dolce nome di “Mamma”. Religiosi e prelati, maestri e teologi, uomini e donne di qualsiasi origine e ordine rimasero affascinati e illuminati dalla luce che emanava dal suo animo e dai consigli ispirati che elargiva. Verso la fine della sua breve vita, Caterina dettò in estasi un libro, il Dialogo della Divina Provvidenza, dove la sua anima presenta a Dio delle domande e Dio risponde ai suoi quesiti circa la vita soprannaturale, l’esistenza umana e di tutta la Chiesa. Un messaggio di fede purissima, di amore ardente, di una dedizione umile e generosa al Corpo mistico e al Romano Pontefice, che ella chiamò “il dolce Cristo”.
Dio non è oggetto di rapina dei sapienti e degli intelligenti, ma è principio e fine del nostro amore: non si affaccia alla finestra della nostra mente, ma bussa alla porta del nostro cuore.
La sapienza del Figlio è quella delle beatitudini: i sapienti non la capiscono e gli intelligenti la scansano. Ciò che è rivelato ai piccoli, rimane nascosto agli altri: il privilegio di conoscere Dio è riservato agli ultimi, ai poveri e ai deboli; è un dono fatto a chi lo desidera e lo desidera chi ne ha bisogno. La privazione, il nostro essere nulla è il luogo dove accogliamo la ricchezza di Colui che è e che è tutto. Mentre i sapienti e gli intelligenti di questo mondo si precludono l’accesso alla vita, è al puro di cuore che Dio si fa vedere, a lui mostra la reciproca conoscenza fra Padre e Figlio, il loro amore che è l’unico Spirito. L’esclamazione “Abbà”, padre, è l’eredità comunicati dal Figlio a tutti i semplici e i poveri che lo accolgono.
Vera sapienza non non è il conoscere molto, ma guardare più a fondo, come faceva Caterina, negli abissi del mondo e dell’anima umana, per indagare il mistero di Dio e degli uomini. “O Deità eterna, o eterna Trinità“, leggiamo nel Dialogo cateriniano, “che, per l’unione con la divina natura, hai fatto tanto valere il sangue dell’Unigenito Figlio! Tu. Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile; e l’anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trinità eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce”.
Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele II, 3, 8-10
Nella camera nuziale lo sposo e la sposa si alleano e si uniscono tra loro nell’amore. Cosa sono dunque nella santa Chiesa le camere nuziali, se non i cuori di quelli nei quali l’anima si unisce mediante l’amore allo Sposo invisibile, cosí che arde per il desiderio di lui, non desidera piú nessuna cosa del mondo, considera una pena la lunghezza della vita presente, ha fretta di uscire e con amplesso amoroso riposare nella visione dello Sposo celeste? Perciò l’anima che è già cosí, non riceve nessuna consolazione dalla vita presente, ma sospira profondamente colui che ama, arde, anela, è ansiosa. Diventa per essa insignificante la salute stessa del corpo perché è trafitta dalla ferita d’amore, per cui nel Cantico dei Cantici dice: “Io sono ferita d’amore”. È una cattiva salute quella del cuore, che ignora il dolore di questa ferita. Quando invece comincia ormai ad anelare al cielo con vivo desiderio e a sentire la ferita d’amore, l’anima, che prima era malata di salute, acquista piú salute dalla ferita.
Un’unica cosa può consolare l’anima, che ardentemente ama il suo Sposo, del prolungarsi della vita presente, se ad essa è ritardata la visione di lui, proprio perché le anime degli altri approfittino della sua parola e divampino di ardente amore per lo Sposo celeste. Si rammarica perché si vede rinviata; tutto ciò che vede la riempie di tristezza, perché ancora non vede colui che brama vedere. Ma, come ho detto, non è piccola consolazione, quando l’anima fervente è rinviata, se per mezzo di essa se ne raccolgono molte, cosí che in ritardo vedrà con molte colui che voleva vedere subito da sola. Per cui ancora nel Cantico dei Cantici la sposa dice: “Sostenetemi con fiori, riempitemi di pomi, perché languisco d’amore”. Cosa sono i fiori, se non le anime che hanno già cominciato ad agire bene e spandono il profumo del desiderio celeste? Cosa sono i pomi derivanti dai fiori, se non le anime già piene di beni, che arrivano al frutto dell’opera buona partendo dal proposito santo? Colei che languisce d’amore, chiede di essere sostenuta con fiori e d’esser riempita di pomi, poiché se ancora non le è permesso di vedere colui che desidera, prova grande consolazione se può recare utilità agli altri. Perciò l’anima malata di santo amore, è sostenuta dai fiori e dai pomi, per riposare nell’opera buona del prossimo, lei che ancora non può contemplare il volto di Dio.