Oggi la Chiesa celebra la festa dell’Ascensione di Gesù al cielo, una festa poco compresa, quando si fa una lettura superficiale dei sinottici e del primo capitolo degli Atti. il lettore, che non è guidato dallo Spirito, comincia a pensare a Gesù al passato: ha detto, ha fatto etc. e viene rinchiuso accuratamente il sepolcro e sotterrata la sorgente della vita, se continuiamo a cercare tra i morti colui che è vivo. Invece quel momento, il momento dell’Ascensione, rappresenta una svolta decisiva: i verbi della festa hanno infatti tutti il senso dell’elevazione, ci invitano a guardare in alto, a elevare il cuore, a rivolgere gli occhi al cielo e a trasferire il nostro cuore là dove Cristo si trova, alla destra del Padre. È la fine di una relazione col Gesù esteriore, ma è l’inizio di una relazione completamente nuova, è l’ingresso in un nuovo tempo: la liturgia degli ultimi tempi. Non si può passare sotto silenzio quella che fu l’intuizione dei Padri: è il Cristo dell’ascensione la chiave di volta delle chiese. San Leone Magno diceva che ciò che era visibile nel nostro Salvatore è passato ora nei suoi sacramenti. I sacramenti sono davvero il tesoro più prezioso che abbiamo. “Noi abbiamo un sommo sacerdote così grande, che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli, ministro del santuario e della vera tenda che il Signore, e non un uomo, ha costruito” (Eb 8,1-2). È una breccia di fede purificante, questa festa, che ci apre al mistero della liturgia: non più due mondi separati, la divinità da una parte e l’uomo dall’altra, ma è la pienezza del tempo che invade il nostro vecchio tempo, per farne gli ultimi tempi. Cristo con il Padre, lo Spirito, gli angeli e tutti i viventi, il popolo di Dio già nella vita incorruttibile o ancora, come noi, nella grande tribolazione: questi sono tutti gli attori del dramma celeste, di questa liturgia eterna. Tutta quell’energia di dono in cui il Padre totalmente altro si è coinvolto fin dall’inizio, quell’amore straziante con il quale egli consegnava suo Figlio attraverso l’incarnazione, la morte sulla croce e la deposizione, infine manifesta il suo frutto. La nostra liturgia è questo immenso flusso e riflusso dell’amore in cui tutto è divenuto vita. La liturgia eterna è la celebrazione di questa condivisione di amore e di vita in cui ciascuno è interamente rivolto verso l’alto. L’Ascensione di Gesù è la Parola che ritorna al cuore del Padre dopo aver portato a compimento la sua missione; la liturgia celebra l’evento continuo del ritorno del Figlio e di tutti noi, figli adottivi, alla casa del Padre. È la festa della nostra storia, portata nel seno della Trinità, è nella liturgia che il Signore della storia si fa servo del suo corpo, servo anche del più piccolo dei fratelli: lo chiama, lo nutre, lo guarisce, lo fa crescere, lo perdona, lo trasforma, lo libera e lo deifica, rivelandogli che è amato dal Padre e unendolo sempre più a se stesso, finché non giunga alla maturità nel regno.
Presso ogni popolo il cielo si identificava con la dimora della divinità, un linguaggio usato anche dalla Bibbia e dalla liturgia: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini”, “Padre nostro che sei nei cieli”, o quando diciamo che qualcuno “è andato in cielo”. A differenza di Dio che sta nei cieli, l’uomo vive sulla terra; ma con Gesù che risorge dai morti e sale al cielo questa barriera tra cielo e terra è abolita: con lui tutta l’umanità può ora sperare di salire in cielo. Oggi siamo anche nell’era scientifica e il significato religioso di cielo è entrato in crisi. La Bibbia si adatta al modo di parlare popolare, ma sa bene che Dio è in cielo, sulla terra e in ogni luogo e se è colui che ha creato i cieli, non può esserne rinchiuso. Che Dio sia nei cieli significa dire che “abita in una luce inaccessibile”, che dista da noi “quanto il cielo è alto sulla terra”. Dio, cioè, è totalmente altro da noi. A noi mancano le categorie per poterlo rappresentare. Pensiamo a una persona cieca dalla nascita e proviamo a spiegargli cos’è il blu e cos’è il rosso: impossibile, perché i colori si percepiscono solo con gli occhi. Così succede a noi nei confronti del cielo, del paradiso e della vita eterna, che è fuori dalle nostre categorie di tempo e spazio. Dobbiamo rassegnarci a vivere con questo mistero, c’è qualcosa che super la nostra ragione persino la nostra immaginazione.
Cosa significa allora proclamare che Gesù è asceso al cielo? La risposta la troviamo nella breve frase di Marco: “fu elevato in cielo e sedette alla destra del Padre”. Significa cioè che Cristo, anche come uomo, è entrato nel mondo di Dio e ne condivide la maestà. E per noi? Andremo a “stare con Cristo” (Fil 1,23), come ci assicura Giovanni: “Vado a prepararvi un posto .. perché anche voi siate dove sono io” (Gv 14,2-3). Il cielo si forma nel momento in cui Cristo risorge e ascende e noi andremo a ricongiungerci e a fare corpo con lui. Così la ascendendo al cielo Cristo ha portato con sé il trofeo della sua vittoria sulla morte: l’umanità glorificata, quella natura che ha in comune con noi, fatta di carne e sangue. Ci ha fatti prigionieri, dice Paolo. In che modo? Ha fatto prigioniero il nostro cuore, perché ha legato a sé il nostro desiderio, il nostro amore, affinché ogni creatura divenga vita eterna. “Porta con sei i prigionieri”, cioè noi, verso il mondo nuovo della sua resurrezione e distribuisce doni agli uomini, cioè il suo Spirito (Ef. 4,7-10). L’Ascensione quindi segna non una fine, ma un nuovo inizio: certo, implica un distacco, e tuttavia dona una più profonda comunione con il Signore, comunione che sarà piena alla fine dei tempi. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli”, afferma Paolo (Fil 3,20-21), “e di là aspettiamo come Salvatore il Signore, il quale trasfigurerà questi misero corpo per conformarlo al corpo suo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a lui tutte le cose”.
Cristo, il nostro tesoro, è asceso al cielo; là sia anche il nostro cuore. È lì la nostra origine, la avremo la nostra sorte, da lì aspettiamo il Salvatore. Sant’Agostino ha un’immagine molto bella: quando si deve attraversare il mare, un lago, un fiume, per giungere all’altra riva, l’importante non è aguzzare la vista per tentare di scorgere cosa c’è di là; l’importante è salire sulla barca che ci porta all’altra sponda. La barca che ci porta all’altra sponda, quella dell’eternità, è la fede della Chiesa. Recitando il Credo, proclameremo, con più intima convinzione del solito, l’articolo che esprime il mistero che stiamo celebrando: “Salì al cielo e siede alla destra del Padre”.
Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 29, 1.2-4
Scrive Luca: “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme”. E poco dopo: “Fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo”. Notate le parole e il loro mistico significato: “Mentre si trovava a tavola … fu elevato in alto”. Mangiò, salì, perché attraverso il prendere cibo risultasse evidente la realtà del suo corpo. Marco ricorda anche che il Signore, prima di salire al cielo, rimproverò i discepoli per la durezza del loro cuore e per l’incredulità. In tutto ciò, cosa occorre mettere in evidenza se non che il Signore rimproverò i discepoli nell’atto di congedarsi con la sua presenza fisica da loro, perché le parole da lui pronunciate nel lasciarli restassero più saldamente impresse nel loro cuore mentre le udivano? Ascoltiamo cosa dice come esortazione dopo il rimprovero per la durezza del loro cuore: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”. Sono disseminati pochi granelli, perché nascano frutti di messi abbondanti dalla nostra fede. Non potrebbe nascere in tutto il mondo una messe così ricca di fedeli, se quei grani scelti dei predicatori non raggiungessero, attraverso la mano del Signore, il terreno delle anime.
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”. Qualcuno forse dirà tra sé: Io ho già creduto e quindi avrò la salvezza. Costui dice bene, se accompagna la fede con le opere, perché la fede autentica è quella che non contraddice con le opere le verità credute. Per questo Paolo scrive di alcuni falsi credenti: “Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti”. E Giovanni: Chi dice: “Lo conosco e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo”. A questo punto dobbiamo verificare l’autenticità della nostra fede con l’esame della nostra condotta, perché potremo dire di essere veri credenti se attuiamo con le opere le promesse fatte a parole. Nel giorno del battesimo ci siamo impegnati a rinunciare a tutte le opere e a tutte le pompe dell’Avversario antico. Ognuno di voi si esamini seriamente e se da dopo il battesimo compie ciò a cui si impegnò, si senta felice per la certezza di avere la vera fede. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro alcun danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Forse, fratelli miei, dovete considerarvi senza fede perché non operate questi prodigi? Essi furono necessari ai primordi della Chiesa, perché la fede doveva essere alimentata dai miracoli per poter crescere. Anche noi, del resto, quando piantiamo alberi, dobbiamo annaffiarli finché non li vediamo ben solidi nel terreno, e appena hanno fissato le radici smettiamo di somministrare l’acqua.
Ci sono altre ulteriori considerazioni in ordine a questi segni e prodigi. La santa Chiesa compie ogni giorno in forma spirituale ciò che faceva allora concretamente mediante gli apostoli. Quando infatti i suoi sacerdoti con la grazia dell’esorcismo impongono le mani ai fedeli e impediscono agli spiriti maligni di prendere dimora nelle loro anime, cosa fanno se non scacciare i demoni? E i cristiani che abbandonano le dottrine mondane della vita di un tempo, che celebrano i santi misteri e annunciano con tutte le forze le lodi e la potenza del Creatore, che altro fanno se non esprimersi in lingue nuove? Quando poi con buone esortazioni spengono la malizia nel cuore degli altri, eliminano i serpenti. Quando sentono parole malvagie e suadenti senza farsi trascinare al male, prendono, sì, bevande mortifere, ma non ne subiscono danno. Quando i credenti si accorgono che il prossimo vacilla nel compiere il bene, quando lo soccorrono con tutte le forze e l’esempio del proprio comportamento, sostengono la condotta di chi è incerto nelle scelte da compiere, altro non fanno se non imporre le mani sui malati perché ritrovino la salute. Questi prodigi sono ancora più grandi perché di ordine spirituale, e perché attraverso di essi vengono ricondotti alla vita non i corpi ma le anime.
Fratelli carissimi, voi pure potete compiere questi segni – se lo volete – con l’intervento di Dio. Si tratta di segni esterni e da essi non possono ottenere vita quelli che li compiono perché sono prodigi di natura corporea che mostrano talora la santità senza però esserne causa; invece questi prodigi spirituali compiuti nelle anime producono la realtà della vita, e non è loro compito semplicemente il mostrarla. Di essi possono fruire solo i giusti, mentre ai primi possono accedere anche i malvagi. Per questo la Verità dice di qualcuno: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”.
Non vogliate perciò, fratelli, fare oggetto del vostro amore quei segni che potrebbero essere attribuiti anche ai reprobi, ma amate i prodigi della carità e del fervore, di cui ora abbiamo parlato, che sono veramente sicuri perché occulti; per essi è stabilita presso il Signore una ricompensa tanto più grande quanto minore è la loro gloria presso gli uomini.