Periodico di informazione religiosa

Un Mediterraneo sempre più rovente  

da | 24 Giu 2025 | Politica

Il Mediterraneo è tornato ad essere teatro e crocevia della competizione globale. E non c’entra solo il clima, che rende le sue acque sempre più calde. Il Mare Nostrum si sta infiammando a causa delle tensioni geopolitiche che attraversano Medio Oriente, Nord Africa e Asia Centrale, portando le onde dei conflitti fino alle porte dell’Europa. L’attacco a sorpresa degli Stati Uniti contro tre impianti nucleari iraniani – Fordow, Natanz ed Esfahan – ha dato il via a un nuovo e inquietante capitolo nello scontro tra Washington e Teheran. Ma è l’intera regione a oscillare pericolosamente.

Dalla base aeronavale di Sigonella in Sicilia – fondamentale per la sorveglianza e l’intervento USA nella regione – fino al Sahel africano, passando per Siria, Libia e il Golfo Persico, il Mediterraneo si configura oggi come frontiera instabile e baricentro della strategia globale. L’Italia, pur mantenendosi fuori formalmente dal conflitto, si trova già coinvolta, con migliaia di militari americani dislocati sul suo territorio e operazioni di monitoraggio sempre più fitte lungo le coste del Levante. In questo scenario in ebollizione, si confrontano le ambizioni di tre potenze: Cina, Russia e Turchia, ciascuna portatrice di una visione distinta del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato.

L’escalation tra Israele e Iran

sraele ha recentemente condotto attacchi mirati contro obiettivi nucleari in Iran, ma, nonostante l’intensità dell’operazione, non è riuscito a distruggere in modo decisivo l’infrastruttura atomica del Paese. Lo stesso presidente russo Vladimir Putin ha confermato che il programma nucleare iraniano procede e che tecnici russi lavorano ancora presso il sito di Bushehr. Israele, privo di bombe a penetrazione profonda, non ha la capacità tecnica per colpire i bunker sotterranei iraniani e può aspirare a un risultato efficace solo con il supporto diretto degli Stati Uniti.

Parallelamente, si fa sempre più evidente l’obiettivo, neanche troppo implicito, di indebolire o persino favorire un cambio di regime a Teheran. Negli ultimi anni, Israele ha eliminato non solo scienziati nucleari ma anche alti dirigenti della Repubblica islamica, con l’idea di colpirne la stabilità interna. Tuttavia, il potere in Iran è oggi fortemente concentrato nelle mani dei militari – in particolare dei Pasdaran – più che nel clero sciita, rendendo il regime più resistente e strutturato di quanto appaia. Un’eventuale caduta del regime, inoltre, non garantirebbe un esito favorevole all’Occidente: il paese, composto da numerose etnie e realtà locali, potrebbe frammentarsi in un caos incontrollabile, favorendo la dispersione di materiale nucleare e l’emergere di nuovi focolai di conflitto.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, si trovano stretti tra la volontà di evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente e le pressioni crescenti da parte di Israele. L’amministrazione Trump, pur mantenendo una linea retorica dura, sembra orientata a guadagnare tempo, puntando su canali diplomatici riservati o su possibili mediazioni europee. Un intervento diretto contro l’Iran, dopo gli eventi successivi all’ottobre 2023, rischierebbe di compromettere seriamente la posizione strategica degli Stati Uniti nella regione e aggravare la crisi interna americana. Inoltre, la scarsa efficacia dimostrata finora dai sistemi di difesa israeliani contro i missili iraniani alimenta i dubbi sulla sostenibilità di un conflitto su larga scala, con il pericolo concreto che l’intera operazione si trasformi in un boomerang anche per Washington.

La Cina: un revisionismo morbido tra diplomazia e infrastrutture

In un contesto caratterizzato da conflitti cronici e relazioni diplomatiche stagnanti, la Cina ha adottato una strategia di lungo periodo basata sulla diplomazia economica, la non interferenza e la costruzione di relazioni bilaterali solide. L’accordo tra Arabia Saudita e Iran del marzo 2023, mediato proprio da Pechino, ha segnato un successo diplomatico senza precedenti, rafforzando il suo ruolo come mediatore neutrale e interlocutore credibile.

Questo episodio ha accelerato l’ingresso dell’Arabia Saudita nei BRICS e nella Shanghai Cooperation Organization (SCO), confermando l’approccio cinese di “revisione leggera” dell’ordine internazionale. L’obiettivo di Pechino è favorire un assetto multipolare, evitando un coinvolgimento militare diretto e puntando su accordi infrastrutturali, investimenti in energia verde e innovazione tecnologica, come testimoniato dai 30 miliardi di dollari firmati durante il summit Cina-GCC del 2022 a Riyad.

Eppure, le ambizioni cinesi si scontrano con una realtà complessa. L’evoluzione da una “diplomazia reattiva” a una “diplomazia proattiva” espone Pechino a nuove pressioni e contraddizioni. La crisi di Gaza ha messo in luce i limiti del non interventismo: gli attori regionali chiedono oggi un coinvolgimento politico più diretto. Finora la Cina ha scelto mediazioni circoscritte, ma la sostenibilità a lungo termine di tale postura resta incerta.

Nonostante ciò, l’impronta cinese nella regione è ormai profonda: oltre 152 miliardi di dollari in finanziamenti allo sviluppo, che rendono Pechino un partner strategico per la modernizzazione economica dei Paesi del Mediterraneo allargato, grazie a valori condivisi come il non allineamento e la sovranità nazionale.

La Russia: una tenaglia africana verso il Mediterraneo

La Russia gioca un ruolo ambiguo ma cruciale. Storica alleata dell’Iran in ambito militare e tecnologico, Mosca ha evitato un coinvolgimento diretto, mantenendo una certa distanza anche dall’“asse della resistenza” (Hezbollah, Siria, milizie irachene). Tuttavia, le parole di Putin indicano chiaramente un appoggio strategico all’Iran, anche per sfruttare l’instabilità a proprio vantaggio. Un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz, da cui transita un terzo del petrolio mondiale, accrescerebbe l’influenza russa sul mercato energetico globale, specialmente verso Cina e Asia. Con basi militari in Siria e un dialogo attivo sia con Teheran che con Tel Aviv, la Russia rimane un attore fondamentale nel determinare gli equilibri futuri della regione.

Benché la guerra in Ucraina abbia temporaneamente indebolito la posizione russa in Siria e in altri scenari mediorientali, Mosca continua a esercitare un’influenza strategica significativa nel Mediterraneo, facendo leva sulla sua presenza militare in Libia e sulla penetrazione crescente nel continente africano.

Il rapporto ONU del 2021 ha evidenziato l’inefficacia dell’embargo sulle armi in Libia, ampiamente violato anche dalla Russia, che ha fornito droni e supporto militare alle milizie vicine al generale Haftar. Il traffico illecito di carburante – stimato in circa 5 miliardi di dollari nel solo 2022 – ha permesso a Mosca di aggirare le sanzioni occidentali, consolidando il suo potere economico e militare nella regione.

Nel frattempo, i contractor russi si sono spostati sempre più verso sud, estendendo la propria influenza a Paesi chiave del Sahel come Mali, Niger e Repubblica Centrafricana. Questo movimento strategico, supportato da aziende come Lobaye Invest, Diamville e M-Invest, rappresenta un tentativo esplicito di sostituire l’influenza occidentale in Africa attraverso un mix di corruzione strategica e controllo militare.

L’obiettivo finale è quello di consolidare una presenza a tenaglia, con una proiezione dal sud verso il Maghreb e il Mediterraneo. La ritirata francese dal Sahel ha aperto ulteriori spazi a Mosca, che sfrutta la distrazione dell’Occidente per consolidare la sua presenza nelle rotte del contrabbando, dei migranti, delle armi e delle materie prime.

La Turchia: assertività marittima e ambizioni regionali

Se la Cina punta alla diplomazia economica e la Russia all’infiltrazione militare, la Turchia gioca la carta della proiezione di potenza regionale, con un mix calibrato di hard e soft power, che ha trasformato Ankara in un attore centrale del Mediterraneo. L’elaborazione della dottrina “Mavi Vatan” (Patria Blu) nel 2017 ha segnato un cambio di paradigma: dal cooperativismo marittimo a una postura assertiva e interventista.

Espansione navale, basi militari a Cipro Nord e in Libia, alleanze dinamiche e interventi diretti nei teatri del Levante: Ankara ha cercato di ritagliarsi un ruolo autonomo e strategico, sfidando apertamente rivali storici come Grecia, Israele, Egitto e Francia. Gli accordi con il Governo di Accordo Nazionale libico nel 2019, finalizzati a ridisegnare i confini marittimi, hanno suscitato reazioni internazionali aspre, ma dimostrano chiaramente la volontà turca di non essere esclusa dal controllo delle risorse energetiche dell’area.

Ankara si presenta anche come intermediario in Siria, sostenendo in parte l’opposizione sunnita ma mantenendo un canale di comunicazione attivo con Russia, Iran e monarchie del Golfo. In Libia, gioca su più tavoli: sostiene Tripoli, ma mantiene contatti anche con l’entourage di Haftar.

L’approccio turco si basa su una logica transazionale, che mira a sfruttare ogni spazio utile per rafforzare la propria influenza. Tuttavia, questa strategia rischia di diventare fragile, poiché un’instabilità in un’area può compromettere i successi ottenuti in un’altra. L’ascesa di Trump e le nuove tensioni USA-Iran aggiungono incertezza a un equilibrio già precario.

Un equilibrio multipolare e instabile

In definitiva, la crisi israelo-iraniana rischia di estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti, diventando un fattore di destabilizzazione globale. Gli obiettivi israeliani – colpire il nucleare iraniano e indebolire il regime – appaiono difficilmente raggiungibili senza conseguenze collaterali enormi. Gli Stati Uniti sono riluttanti, la Russia approfitta del caos, e l’Iran, nonostante le pressioni, non è ancora crollato. Un conflitto prolungato potrebbe finire per trasformare i promotori dell’intervento nei suoi principali sconfitti.

Il Mediterraneo non è più una periferia del sistema globale, ma un crocevia di potenze revisioniste che utilizzano mezzi diversi per accrescere la propria influenza: la diplomazia economica della Cina, il militarismo informale della Russia, l’interventismo regionale della Turchia. L’assenza di una strategia unitaria da parte dell’Occidente, combinata con le crisi regionali e le nuove dinamiche globali, lascia spazio a un equilibrio instabile, multipolare e pericolosamente fluido.

In questa nuova partita, l’Europa e l’Italia sono già sul campo, spesso più come spettatori che come giocatori. Ma quando il Mediterraneo torna a essere “centro e confine”, la neutralità è un’illusione. Il conflitto è già qui.

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