Venerdì della prima settimana di Quaresima
Ci adiriamo col fratello quando lo vediamo come ostacolo e impedimento al nostro percorso. Lo si può uccidere nel cuore con pensieri e sentimenti ostili, o anche semplicemente con l’indifferenza. Lo si uccide poi con parole ingiuriose e sprezzanti, con il parlare violento e volgare, che impregna il clima della società in cui viviamo. E così che cerchiamo di demolire il prossimo umiliandolo e denigrandolo. Dal sentimento e dalle parole, deriva poi l’azione. Un monaco orientale, Giovanni Climaco, paragonava l’uomo adirato all’epilettico: non si può ragionare con lui, finché non passa l’esplosione del corto circuito che lo stravolge. L’esplosione dell’ira è segno di debolezza di carattere, ma è molto più pericoloso lasciare che l’ira covi dentro il cuore, perché ci si chiude ad ogni possibilità del perdono. Quando si comporta così, scrive Gregorio di Nissa, una persona si autoesclude dagli altri, perché medita di vendicarsi da sola, senza l’aiuto di Dio. Negli Apoftegmi dei Padri si racconta di come essi curarono un iracondo facendogli ripetere questa curiosa preghiera: “Ti ringrazio Signore di non aver bisogno di te, perché la giustizia me la faccio da solo”.
Giustizia vera è solo quella che Gesù ha inaugurato sulla croce con un atto di perdono e di amore smisurato. Se l’uomo è figlio di Dio, il suo perdono scaturisce dal perdono del Padre celeste. Chi perdona è simile al Padre. E come Dio desidera ad ogni costo riguadagnare l’uomo perduto, così, l’uomo cresciuto alla scuola di Cristo, abbandona il principio della corrispondenza di dolore a dolore, di danno a danno e come unico desiderio ha quello di riguadagnare alla comunione divina colui da cui ha ricevuto l’offesa.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe V, 81
Riflettiamo dunque quanto sia grave la colpa dell’ira che, mentre fa perdere la mansuetudine, compromette la nostra somiglianza con Dio […] L’ira impedisce lo splendore dello Spirito santo, perché, contrariamente all’antica versione, sta scritto: “Su chi riposerà il mio Spirito? Su chi è umile e tranquillo e su chi teme la mia parola”. Dopo aver detto “su chi è umile” aggiunge subito “e tranquillo”. Se l’ira turba la tranquillità della mente chiude la sua abitazione allo Spirito santo e l’animo, rimasto vuoto per questa partenza, è subito portato ad una manifesta follia e sconvolto dall’intima radice dei pensieri fino alla superficie.
In due modi si può vincere l’ira e impedirle di dominare l’anima. Il primo è che l’anima sollecita, prima di cominciare qualunque azione, preveda tutte le ingiurie che potrà subire, affinché, pensando agli oltraggi subiti dal Redentore, si prepari ad affrontare le avversità.
Così quando arrivano, può affrontarle con tanto maggior coraggio quanto più è premunita prevedendole lucidamente. Chi si lascia cogliere alla sprovvista dall’avversità, è come chi viene sorpreso dai nemici nel sonno: lo uccidono immediatamente senza la minima resistenza. Invece chi ha previsto vigilante i mali imminenti è come chi aspetta sveglio l’incursione e l’agguato del nemico: si accinge valorosamente alla vittoria, appunto perché si calcolava di coglierlo di sorpresa. Perciò prima di entrare in azione, l’animo deve attentamente considerare tutte le avversità che potrà incontrare.
Il secondo modo di conservare la mansuetudine è che, notando i torti degli altri, riflettiamo ai torti che noi abbiamo fatto agli altri. La considerazione della nostra fragilità ci porta a scusare i torti degli altri. Sopporta pazientemente un’ingiuria chi piamente si ricorda che forse ha qualche cosa da farsi perdonare. Come con l’acqua si spegne il fuoco, così, quando uno comincia ad infuriarsi, a propria colpa gli richiama alla mente che deve vergognarsi di non perdonare i peccati degli altri lui che ha tanti peccati da farsi perdonare, sia da Dio sia dal prossimo.