Il 26 marzo 2000, Giovanni Paolo II compì un gesto che segnò profondamente le relazioni tra la Chiesa cattolica e la comunità ebraica. Durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, si recò al Kotel, il Muro del Pianto, il luogo più sacro dell’ebraismo, dove pregò e chiese perdono a Dio per le violenze e i crimini perpetrati dai cattolici contro gli ebrei nel corso dei secoli. Questo atto di penitenza è stato definito un “gesto profetico” da importanti figure del mondo ebraico, un passo significativo nella storia della Chiesa cattolica e del dialogo interreligioso.
Il contesto storico del gesto di Giovanni Paolo II
Giovanni Paolo II aveva posto il rinnovamento della fraternità tra ebrei e cattolici come una delle priorità del suo pontificato. La sua missione iniziò sin dal 1979, a soli cinque mesi dalla sua elezione. Il 12 marzo di quell’anno, il papa ricevette a Roma i membri di organizzazioni ebraiche, sottolineando l’importanza della dichiarazione conciliare Nostra Aetate (1965), che segnava, tra l’altro, un cambiamento radicale nella relazione tra la Chiesa e il popolo ebraico. In quella occasione il papa richiamava il legame tra il popolo di Israele e quello cristiano, riconoscendo che il popolo ebraico non era più visto come “deicida”, ma come parte integrante del piano divino che rimane intatto. Giovanni Paolo II, riprendendo questo insegnamento, ribadì in più occasioni che “la prima alleanza che Dio ha stretto con il popolo di Israele non è mai stata revocata”, contrastando apertamente le teorie della sostituzione e il disprezzo secolare che avevano alimentato l’antisemitismo cristiano.
La riconciliazione al Muro del Pianto
Il momento culminante di questo processo di riconciliazione arrivò nel 2000, quando Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme per il Giubileo del 2000. Il 23 marzo, in visita al memoriale della Shoah, Yad Vashem, il papa espresse il suo dolore per la tragedia vissuta dal popolo ebraico durante il XX secolo, invocando una nuova era di rapporti tra cristiani ed ebrei. Il 26 marzo pregò davanti al Kotel, dove depose una preghiera di perdono per le ingiustizie e le sofferenze inflitte dalla Chiesa nei confronti degli ebrei nel corso della storia.
Le immagini del papa, già fragile, che si avvicina al Muro con lentezza, sono ancora oggi un simbolo potente di un cammino di riconciliazione. Questo gesto non fu solo una richiesta di perdono, ma un invito a tutti, ebrei e cattolici, a vivere in autentica fratellanza, superando secoli di incomprensioni, pregiudizi e conflitti.
La visita alla Sinagoga e l’accordo con Israele
Giovanni Paolo II aveva già segnato la sua disponibilità al dialogo nel 1986, quando divenne il primo papa a visitare la Sinagoga di Roma. In quella storica occasione, il papa dichiarò che “la religione ebraica non ci è estranea” e che gli ebrei sono “i nostri fratelli maggiori”, mettendo così in luce l’importanza delle radici comuni tra cristiani e ebrei.
Il cammino verso la riconciliazione si concretizzò anche sul piano politico. Dopo 45 anni, il 30 dicembre 1993, grazie all’iniziativa di Giovanni Paolo II, il Vaticano e lo Stato di Israele firmarono un accordo storico, che segnava il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di Israele da parte della Chiesa. Successivamente fu aperta una nunziatura in Israele e anche un’ambasciata israeliana a Roma.
Questo accordo, benché principalmente giuridico, rappresentava un passo fondamentale, dato che Papa Paolo VI, nella sua visita a Gerusalemme, fu attento a non pronunciare mai la parola “Israele”, cosa che avrebbe potuto venire intesa come un riconoscimento de facto dello Stato ebraico.
Una difficile neutralità
Il par. 2 dell’Articolo 11 dell’Accordo Fondamentale del 30 dicembre 1993 affermava: “La Santa Sede, fermo restando in ogni caso il diritto di esercitare il suo magistero morale e spirituale, ritiene opportuno ricordare che, per il proprio carattere, è solennemente impegnata a rimanere estranea a tutti i conflitti meramente temporali, tale principio si applica specificamente ai territori contesi e alle frontiere non ancora definite”. Una neutralità francamente difficile da rispettare. Senza ripercorrere ogni tappa, ricordiamo che nel febbraio del 2013 il Vaticano riconobbe ufficialmente lo Stato di Palestina, nel 26 giugno 2015 venne sottoscritto un formale accordo tra i “due Stati” e nel 2017 Papa Francesco autorizzò l’apertura dell’ambasciata palestinese presso la Santa Sede. Un passaggio netto dalla neutralità dichiarata allo schieramento deciso a favore della causa palestinese, che del resto segue la linea di Papa Francesco per una Chiesa che abbia il coraggio di sporcarsi le mani e compromettersi con il mondo.
Dopo il 7 ottobre
Se il pontificato di Giovanni Paolo II ha segnato un’epoca di cambiamento nei rapporti tra ebraismo e cattolicesimo, ponendo le basi per una fraternità che, come il papa stesso diceva, doveva essere “una benedizione per il mondo”, oggi la situazione è molto più complessa con la guerra in corso a Gaza. Basti solo ricordare, a mo’ di esempio, la frase contenuta nel volume “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore” che sollevò un polverone: “A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali”.
A 25 anni da quel pellegrinaggio profetico di Giovanni Paolo II, non le relazioni tra il Vaticano e Israele sono ancora piuttosto lontane da una reale pacificazione