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Accogliere: Lucio Caracciolo in dialogo con Andrea Riccardi

by | 24 Apr 2023 | Recensioni

Accogliere. Il titolo di un libro di 112 pagine, da pochi giorni in distribuzione pubblicato da Piemme, che vede  Lucio Caracciolo, fondatore della rivista di geopolitca “Limes” in dialogo con Andrea Riccardi, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant’Egidio, oggi presente in più di settanta paesi nel mondo. Un dialogo nel segno di un’Europa risorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, piena di risorse non solo economiche, ma anche umane, chiamata a superare antiche e nuove paure.

Accogliere: un verbo che, nonostante il suo significato, oggi è tra i più divisivi. Accogliere: un verbo che esprime un modo di essere e di stare al mondo, dove si gioca il futuro della nostra civiltà. Accogliere: un verbo che racchiude tutto il senso della fede cristiana, perché prendendo la carne umana, Dio è stato accolto (e rifiutato) nel mondo. Accogliere: un verbo, che fa parte della nostra costituzione umana come persone, ma che si scontra, però, con un dato di fatto, che cioè l’uomo è anche un animale territoriale. Dunque: amici o nemici? L’identità come santificazione di una barriera? Un senso di colpa inconscio di un Occidente post-coloniale?

Il tema dell’immigrazione è diventato ossessivamente mediatizzato. Oggi si fa un gran parlare del mito della sostituzione etnica, di invasione di migranti, di compatrioti esclusi rispetto agli aiuti dati a chi viene da fuori, di complotti di islamizzazione contro l’identità cristiana dell’Europa. Ma qual è la realtà che si nasconde dietro questi proclami che alimentano schieramenti ideologici e guerre di religioni?

L’irregolare rompe la regola e la mette in crisi. C’è paura ad accogliere, perché lo straniero entra nel mio mondo, lo cambia e mette in crisi le certezze del quieto vivere. Il grande storico francese Jean Delumeau parlava del treno di paura, il rifugiato come l’avanguardia di un’orda di invasori: “d’accordo, faccio venire lui, ma poi costui fa dieci figli, fa venire mamma, papà, nonni e nipoti”. Ma così ragionando, si giunge ad un punto morto: il rifiuto di principio dell’accoglienza in generale, che non è compatibile con i valori della democrazia e della libertà, su cui si sono costruite le basi della moderna Europa. Il rabbino Johnatan Sacks individuava nel passaggio dal noi all’io la chiave del profondo cambiamento culturale della nostra società. Un io sempre più fragile, costretto alla difensiva, alimentato dai media (a)sociali, rispetto invece al noi, che ha più capacità di integrare e di accogliere. Nel momento in cui l’io è totalmente centrato su sé stesso e pensa di poter fare tutto da sé, indifferente all’altro, entra in crisi il senso stesso della comunità, che sia la famiglia, la parrocchia, o un’istituzione più ampia.

Alle origini dell’Europa, la stessa Roma nasce fin dalle origini da un mix etnico, una fusione tra l’elemento latino, quello etrusco e italico e quando raggiunse dimensioni tali da potersi chiamare impero, non aveva alcuna caratterizzazione etnica. Basti pensare a quanti imperatori venissero da province lontane. Questa impronta culturale universalistica è stata poi ereditata e custodita dal magistero della Chiesa cattolica romana. Si pensi alla figura di papa Gregorio Magno, tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo: prima monaco, poi vescovo di Roma, ebbe la precisa visione dello scontro di civiltà a lui contemporaneo tra i nuovi popoli che varcavano le frontiere, più forti e dinamici, e l’antica società romana, ormai indebolita, ma dotata ancora di forte prestigio storico e culturale. La sua risposta? Fu l’integrazione. La Chiesa è stata sin dall’ora di origine multiculturale e plurinazionale e Gregorio magno, attraverso il Vangelo e la sua grande intelligenza politica, diede origine all’Europa romano-barbarica. Le civiltà veramente forti non hanno mai avuto paura di incontrare. Anche oggi la chiesa è una realtà universalistica transnazionale, con un leader globale che è il Papa, ma allo stesso tempo è una realtà profondamente locale, che esiste nelle parrocchie di quartiere e nelle diocesi.

Oggi viviamo una situazione per certi versi simile a quella della crisi dell’impero romano.  L’Italia – ma non è l’unico paese in Europa – è un paese che continua a perdere abitanti, non fa figli, stentando a ringiovanirsi e a sopravvivere e, nei fatti, deve importare i figli degli altri. Sulla necessità dell’accoglienza si potrebbe fare persino un calcolo piuttosto utilitaristico: in Germania il 24% della popolazione, che corrisponde a più di 20 milioni di persone, ha una storia di migrazione alle spalle; così l’ingresso di famiglie immigrate è stato un asse strategico grazie a cui il paese ha potuto contrastare il declino demografico, la crisi del mercato e della previdenza. E L’Italia? Il Belpaese si avvia ad essere una società di anziani: il deficit demografico non si colma più. Eppure noi abitanti dello Stivale da millenni siamo abituati alla figura dello straniero, invasore e non: accogliere fa parte della struttura genetica e dell’ambiente culturale degli italiani. Non dimentichiamo che gli italiani hanno conosciuta una lunga e penosa storia di migrazioni, con enormi flussi a più riprese dall’Unità al periodo post-bellico. Tra il 1961 e il 1985 più di 18 milioni di italiani hanno chiesto di essere accolti all’estero. E non è finita: oggi sono 300.000 l’anno ad emigrare, specialmente giovani laureati diretti all’estero, perché non trovano un giusto riconoscimento e spazi sufficienti in Italia, o non intendono fermarsi in un paese che sentono ormai invecchiato e in ritardo su tutto. Un’Italia che avuto problemi di accoglienza anche nella sua storia unitaria, dei settentrionali verso i meridionali, italiani contro altri italiani. E che oggi vive in una strana contraddizione: piccoli paesi e aree interne che si spopolano e con superfici forestali in aumento, mentre ogni giorno abbiamo sotto gli occhi immagini di migranti ammassati in strutture di accoglienza al collasso e nelle periferie delle grandi città. E i dati non sono confortanti: complice anche il cambiamento climatico, entro il 2030 avremo nel mondo due miliardi di persone – cioè un quarto dell’umanità – che vivrà nelle bidonville.

L’Italia non ha ancora un suo preciso modello o pensiero circa l’integrazione, ma affronta a colpi di emergenze e di crisi l’arrivo e la presenza di stranieri sul suo suolo. Non basta accogliere un barcone in difficoltà: è un sacrosanto dovere, ma questo deve essere l’inizio di un processo, che dura una o più generazioni. Purtroppo è un discorso che fa perdere voti ai partiti, sia di sinistra che di destra. In questo contesto la Chiesa ha sempre cercato di combattere la cultura dei populismi ed è questo il leitmotiv costante di Papa Francesco, figlio di emigrati e proveniente da un paese, quale è l’Argentina, che è stato creato da ondate di immigrazione successive. Tra cui tantissimi italiani in cerca di fortuna. Quando San Paolo diceva: non c’è più né Giudeo né Greco, né barbaro né Scita, faceva un’affermazione incredibile per l’epoca, un’affermazione che è sempre stata il tarlo di ogni nazionalismo. Il Papa è una figura che va al di là dell’orizzonte nazionale – non a caso al pontificato di Papa Francesco è corrisposta una deitalianizzazione del papato e della curia – nonostante oggi il nazional-cattolicesimo sia ancora in vita e abbia assunto varie forme all’interno dei paesi occidentali. Pensiamo solo all’Ungheria di Orban. Questi fenomeni di derive anti-universali della Chiesa ci sono, ma non son altro che uno specchio della più generale deriva culturale e sociale occidentale. Anzi dentro la stessa chiesa si fa sempre più fatica ad accogliersi e rispettarsi gli uni gli altri – vedi il Sinodo tedesco – con cardinali che si insultano pubblicamente o che criticano ferocemente il Papa, alimentando solo ulteriori divisioni

La conclusione corale di Caracciolo e Riccardi è che i migranti non devono essere visti come una marea che invade le nostre coste, ma un’opportunità, da vivere e gestire in maniera umana e responsabile. Senza accoglienza siamo morti: accogliere è un’esperienza che ci cambia e che può rigenerare le nostre società. Il compito difficile che la Chiesa in prima linea si sta ponendo è quello di rompere le barriere costruite in questi anni, nei quali localismi e separatismi sono stati eccitati ed evocati da varie parti. Lo stiamo vedendo con l’accoglienza dei sedici milioni di profughi ucraini, anche loro migranti tanto all’interno dell’Ucraina quanto nei paesi dell’Europa centro-orientale. Ma è una goccia nell’oceano: c’è un intero mondo in movimento. Nel 2020 si è arrivati a 281 milioni tra migranti e rifugiati. Dobbiamo renderci conto che nostro mondo globale l’emigrazione sarà sempre più una componente essenziale e strutturale. Papa Francesco, nel suo discorso per la Giornata del rifugiato nel 2018, ha riassunto in quattro verbi il compito che ci attende: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Accogliere è la necessità, non la scelta del nostro tempo.

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