Come la folgore viene da Oriente, è il libro intervista, in cui il cardinale Lazzaro You Heung-Sik, Prefetto del Dicastero per il clero, si racconta: la storia della sua conversione, l’eredità del Confucianesimo, la dolorosa divisione delle Coree, gli incarichi svolti con semplicità fino alla nomina a Prefetto. “Abbiamo bisogno di questa luce che viene da Oriente”, – scrive Papa Francesco nella prefazione – “abbiamo bisogno di decentrarci, compiendo un viaggio verso Oriente e mettendoci alla scuola di uno stile di vita spirituale ed ecclesiale che può rinvigorire la nostra fede. E abbiamo bisogno di ricordare che, anche nelle fatiche e nell’oscurità, come la folgore ilSsignore viene. E vuole illuminare la nostra vita”.
Il cardinale Lazzaro ritrova nella sua storia un filo d’oro, ossia l’amore di Dio, che lo ha sempre guidato e accompagnato in ogni vicenda della sua vita. Un vivere pienamente fino in fondo la propria vocazione, come ha detto a Giovanni Paolo II da giovane prete e poi ha ripetuto da cardinale a Papa Francesco: “Santo padre, sono pronto a dare la mia vita per lei e per la Chiesa”.
Di modeste origini, proveniente da una famiglia dove nessuno era credente, percorreva a piedi 8 km soltanto per andare a scuola. Alle medie frequenta una scuola cattolica intitolata ad Andrea Kim Taegon, dove viene a scoprire la figura di Gesù per la prima volta durante l’ora di religione. Da qui un percorso che lo porta al battesimo a 16 anni, che sembra realizzare le parole che Papa Francesco ha pronunciato nel suo viaggio apostolico in Corea nel 2014: “La fede cristiana in Corea non è arrivata tramite missionari, ma attraverso i cuori e le menti della stessa gente coreana, che erano stimolati dalla curiosità intellettuale, cercavano la verità, volevano conoscere qualcosa in più su Gesù, sulla sua vita, la sua sofferenza, la sua morte, la sua risurrezione”.
Lazzaro è un giovane impegnato in piccoli e grandi servizi, perché “il cristianesimo è concreto, non un’idea teorica”, fosse l’Eucarestia o la pulizia dei bagni della scuola: sempre con il sorriso, perché “la fede allarga lo spazio, apre alle relazioni con gli altri e non solo con Dio”. Poi l’ingresso in seminario, anche prima del tempo previsto, in una vita donata generosamente al Signore. Oggi però tutto questo si sta perdendo, perché nel cuore delle persone, anche in Asia, sta entrando un’altra visione della vita. La carità, però, continua ad attrarre molto, cristiani e non: “in una società materialista e competitiva, quindi individualista, ogni volta che le persone sono sfidate dalla carità cristiana ad allargare le proprie relazioni e a uscire da se stesse, si lasciano attrarre dalla Chiesa”.
Il Vangelo non è un’idea e Gesù si incontra attraverso testimoni concreti: lo sa bene il cardinale Lazzaro, che ha avuto esempi ordinari e straordinari insieme, che gli hanno insegnato a “scendere dalle nuvole” e cercare la strada “nella pianura del quotidiano”. La memoria di Andrea Kim e dei martiri coreani, la vicinanza con le suore, il servizio militare, dove organizzava una liturgia della Parola di domenica – esperienza che portò al battesimo venti persone, l’arrivo a Frascati e il movimento dei Focolarini, agli americani a Boston insegna a non sprecare il cibo. “Vivere la Parola nelle quotidiane situazioni della vita e vivere l’amore gratuito nella condivisione reciproca sono due vie privilegiate per incontrare Gesù e conoscere il Vangelo”. L’ordinazione sacerdotale a ventotto anni nel 1979; vent’anni dopo rettore del seminario di Daejeon nel 1998 e infine la chiamata all’episcopato nel 2003: il motto “Lux Mundi”, la luce del mondo (Gv 8,12). Un filo d’oro che lo ha condotto, infine, a Roma, alla guida del Dicastero per il clero e al cardinalato.
Ma il libro è molto più che un’intervista: tanti e utilissimi i suggerimenti e gli spunti per i preti in formazione, ma anche per i vescovi. Contro una certa tendenza all’autoritarismo, ricordarsi “prima di ogni cosa, fratelli”. Relazioni libere e sincere, non obbedienza formale e superficiale con il vescovo, che rischia di ripercuotersi in quella con il Signore: “da vescovo non ho mai chiesto a un prete: quale problema hai?, ma ho sempre iniziato offrendo un caffè oppure il pranzo”. Preghiera e studio, anche dopo l’ordinazione: la relazione tra il seminario e il dopo diventa infatti sempre più difficile. Ma anche spazio per il riposo e il tempo libero, pena il rischio di burn out o di protagonismo eccessivo: “il sacerdote non è l’uomo del fare, non è un mestiere esteriore rispetto alla persona e alla vita”. Il prete non deve smarrire il centro, che è Gesù. Armarsi di tanta pazienza, perché “se dobbiamo impegnarci sempre in tutto, dobbiamo imparare ad attendere i tempi di Dio, che sono migliori dei nostri. Bisogna fidarsi di come lui conduce la storia”. Maturità affettiva, comunitaria e missionaria, in un delicato equilibrio che deve integrare i diversi aspetti. Dialogo costante con altri preti e con i laici, in un lavoro pastorale che sia fatto in rete, coinvolgendo i diversi attori sul territorio: “non si può restare in una pastorale di conservazione, ci vuole il coraggio di una pastorale missionaria, preoccupata di andare incontro alle persone del nostro tempo con la gioia del Vangelo”.
L’appello, così, è rivolto anche ai vescovi, chiamati a incontrare le persone con normalità e a intrattenere semplici rapporti umani, liberando il ministero episcopale da una certa aurea di sacralità ed eccessiva formalità istituzionale; chiamati a immergersi nel lavoro pastorale delle comunità cristiane, condividendo davvero la vita diocesana e maturando insieme ai preti e i laici e alle loro visioni profetiche. Contro chi considera i seminari istituzioni sorpassate, il cardinale è convinto “che possano essere ancora luoghi di formazione, specialmente per il tratto comunitario che riescono a garantire”. Ma serve un esame di coscienza: “Non possiamo tenere in piedi delle istituzioni formative con pochissime persone, perché non si garantisce una qualità alta della formazione”. Il seminario del futuro non dovrà essere un luogo separato, “quanto lo spazio in cui impariamo a far rete, a entrare in connessione, a maturare nella relazione”. In questo percorso può essere d’aiuto anche una presenza femminile all’interno del seminario.
E poi c’è la piaga del clericalismo, che Papa Francesco spesso denuncia. Per vincerla, la certezza del prete di essere sposo: “significa che il fine ultimo della nostra vita non è il sacerdozio, ma è il Signore”. Il fine ultimo della vita sacerdotale non è l’essere prete in un modo in un altro, ma il coraggio e la gioia di scegliere Gesù, ogni giorno e sempre con entusiasmo, “perché anche con le migliori intenzioni un prete può scegliere tante cose, dimenticarsi di fare, ripetere, rinnovare ogni giorno la scelta di Dio”. Un altro pericolo è il vagheggiamento di un certo tradizionalismo, il rimpianto di un mondo ormai tramontato, la sicurezza di una identità separata, eletta da Dio, l’esibizione di simboli esteriori e abiti particolari, tutti sintomi per il cardinale di una difficoltà di fondo, cioè il pensarsi del prete insieme agli altri e con gli altri: “Dietro la nostalgia del tradizionalismo c’è il desiderio di ritornare a una società in cui il prete era qualcuno. Ma questo significa che ho bisogno del ruolo esteriore per apprezzare me stesso, per stimarmi degno di qualcosa: è una fragilità antropologica su cui vigilare fin da subito, da quando si manifestano i segni della vocazione”. Essere controcorrente, sì, ma “non facendo cose straordinarie, ma semplicemente essendo come gli altri, come le persone comuni”. Il sacerdozio non può e non deve essere realizzato con discorsi astratti: un prete è prete in un momento preciso della vita della Chiesa, all’interno di una chiesa particolare, inserito in un dato momento storico e non un altro, dove ci sono problemi e difficoltà concrete.
Le ultime battute sono dedicate alle sfide del nostro tempo: in un cristianesimo che perde attrattiva, dove diminuisce il numero dei fedeli e delle vocazioni sacerdotali e religiose, urge ridare il sapore al sale, cioè rimettere al centro in Vangelo con vigore ed entusiasmo. La questione giovanile: occorre mettersi in ascolto dei giovani, che non credono alle prediche, ma hanno sete di esempi significativi, e si aprono generosamente se incontrano testimoni di bellezza e di autenticità. Il Sinodo, non come evento, ma come stile della Chiesa. La formazione di nuovi leader, dalla solida preparazione spirituale, teologica e pastorale, che possano portare avanti la loro missione insieme ai preti. Il coinvolgimento delle donne negli ambiti di governo, slegando certi ruoli di responsabilità dal sacramento dell’ordine. Sugli abusi, abbattere la visione clericale da cui deriva quell’autoritarismo, che diventa abuso morale e sessuale, e formare a una relazione serena con il proprio corpo e la propria sessualità, così da avere persone libere serena e distaccate. Sacerdoti chiamati a vivere il ministero come il buon samaritano, scendendo nella vita concreta per lavare i piedi dell’umanità, guardando all’esempio di Papa Francesco: grande, perché attento alle piccole cose. Questo è lo stile di Dio, che è vicino e si ricorda di ognuno, prendendosi cura anche dei dettagli della vita.
Ecco il contributo che può dare la chiesa asiatica a un Occidente stanco: presentare il Vangelo attraverso i simboli principali della vita e attraverso una testimonianza di spiritualità di gioia. “La strada è sempre questa: l’incontro tra fede e cultura”.