La mattina di sabato 21 dicembre è avvenuto il consueto scambio di auguri tra papa Francesco e la Curia Romana. Nel suo Discorso, il Pontefice si è soffermato sul valore del parlare bene degli altri, a discapito del – purtroppo – diffuso male-dire; egli, già all’inizio, ha affermato: «Ho pensato al parlare bene degli altri e non parlarne male. È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali. Perché? Perché tocca la nostra umanità. Questo atteggiamento, il parlare bene e non parlare male, è un’espressione dell’umiltà, e l’umiltà è il tratto essenziale dell’Incarnazione, in particolare del mistero del Natale del Signore, che ci apprestiamo a celebrare. Una comunità ecclesiale vive in gioiosa e fraterna armonia nella misura in cui i suoi membri camminano nella via dell’umiltà, rinunciando a pensare male e parlare male degli altri».
«Dite bene e non dite male»: è questa l’accorata esortazione che Bergoglio ha rivolto a tutti i suoi collaboratori nel governo della Chiesa; «Accusare sé stessi è un mezzo, ma è indispensabile: è l’atteggiamento di fondo in cui può mettere radici la scelta di dire “no” all’individualismo e “sì” allo spirito comunitario, ecclesiale. Infatti, chi si esercita nella virtù di accusare sé stesso e la pratica in modo costante, diventa libero dai sospetti e dalla diffidenza e lascia spazio all’azione di Dio, il solo che crea l’unione dei cuori. E così, se ciascuno progredisce su questa strada, può nascere e crescere una comunità in cui tutti sono custodi l’uno dell’altro e camminano insieme nell’umiltà e nella carità. Quando uno vede un difetto in una persona, può parlarne soltanto con tre persone: con Dio, con la persona stessa e, se non può con questa, con chi nella comunità può prendersene cura. E niente di più. Allora ci chiediamo: cosa c’è alla base di questo stile spirituale di accusare sé stesso? Alla base c’è l’abbassamento interiore, improntato al movimento del Verbo di Dio, la synkatabasis, o condiscendenza. Il cuore umile si abbassa come quello di Gesù, che contempliamo in questi giorni nel Presepe».
Il Papa ha presentato sia l’umiltà divina, sia la risposta della persona umana: «Il movimento dell’Altissimo è di abbassarsi, di farsi piccolo, come un granello di senape, come un germe di uomo nel grembo di una donna. Invisibile. Così incomincia a prendere su di sé l’enorme, insostenibile massa del peccato del mondo. A questo movimento di Dio corrisponde, nell’uomo, l’accusa di sé stesso. Non è prima di tutto un fatto morale: è un fatto teologale – come sempre, come in tutta la vita cristiana –; è dono di Dio, opera dello Spirito Santo, e da parte nostra è ac-con-discendere, fare nostro il movimento di Dio, assumerlo, accoglierlo. Così ha fatto la Vergine Maria, che non aveva nulla di cui accusarsi ma si è lasciata pienamente coinvolgere nell’abbassamento di Dio, nella spogliazione del Figlio, nella discesa dello Spirito Santo. In questo senso l’umiltà si potrebbe chiamare una virtù teologale».
Francesco ha ricordato a tutti i presenti l’alto valore della confessione sacramentale, e il grave pericolo del serpeggiante chiacchiericcio. Primieramente, però, ha sottolineato l’amore di predilezione che Dio nutre per l’umanità, per la quale non si stanca di incarnarsi. Bergoglio non si stanca di affermare: «Ecco il fondamento del nostro dire-bene: siamo benedetti, e in quanto tali possiamo benedire. Siamo benedetti e pertanto possiamo benedire. Tutti noi abbiamo bisogno di essere immersi in questo mistero, altrimenti rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua»; il suo accorato invito è a «benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici – è una realtà; benedire anche gli antipatici –, anche chi ci ha trattato male. Benedire».
Il sogno di Francesco continua a essere quello di una comunità credente che diventa segno e strumento dell’amore divino: Nella Chiesa, segno e strumento della benedizione di Dio per l’umanità, siamo tutti chiamati a diventare artigiani di benedizione. Non solo benedicenti, artigiani di questo: insegnare, vivere come artigiani per benedire. Possiamo immaginare la Chiesa come un grande fiume che si dirama in mille e mille ruscelli, torrenti, rivoli – un po’ come il bacino amazzonico –, per irrigare tutto il mondo con la benedizione di Dio, che scaturisce dal Mistero pasquale di Cristo. La Chiesa ci appare così quale compimento del disegno che Dio rivelò ad Abramo fin dal primo momento in cui lo chiamò a partire dalla terra dei suoi padri».
Il Pontefice ha concluso il proprio Discorso, auspicando per tutti: «Ecco allora l’augurio: che il Signore, nato per noi nell’umiltà, ci aiuti ad essere sempre donne e uomini bene-dicenti».