Il monte Tabor, nel cuore della Galilea, è un’altura isolata che termina con una sommità pianeggiante, che si innalza nel lato nord-est della valle di Esdrelon, nei pressi dell’antica Scitopoli, per un’altezza di 588 m slm: benché non sia altissimo, è però visibile da numerosi luoghi della Galilea; inoltre non appartiene ad una catena montuosa, ma si staglia isolato nel cielo, quale spazio separato e quindi adatto per il culto alla divinità. Fin dall’antichità è attestato il culto religioso dedicato a Baal; divenne in seguito anche luogo di culto per gli Israeliti. Debora «mandò a chiamare Barak […] e gli disse: “Sappi che il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Neftali e figli di Zabulon» (Gdc 4,6). Tra gli altri testi biblici: «Il settentrione e il mezzogiorno tu li hai creati, il Tabor e l’Ermon cantano il tuo nome» (Sal 89,13); oppure «per la mia vita verrà uno simile al Tabor fra le montagne, come il Carmelo presso il mare» (Ger 46,18).
Se al tempo di Gesù il Tabor sembra essere stato deserto, nel III secolo a.C. il piano era stato occupato da un insediamento fortificato, di cui si impadronì il re seleucide Antioco III nel 218 a.C.; nel 66 d.C, nella rivolta degli Ebrei contro i Romani, il Tabor fu protetto da un circuito di mura per ordine di Giuseppe Flavio, ma cadde nelle mani di Vespasiano.
Per la prima menzione di una chiesa sul Tabor, dobbiamo rivolgerci a Girolamo: nel 392 Girolamo e Paola infatti sono i primi pellegrini, di cui abbiamo notizia, che si recarono sulla cima del monte. Altre testimonianze importanti sono: l’Anonimo Piacentino, nel 570, che scrive di essersi recato in tale luogo e di aver visto tre basiliche, evidentemente a memoria di quella parola di Pietro di fare tre tende; quella di un certo (P)restutus, che in una lettera di un sinodo di Gerusalemme, si firma come vescovo del Monte Tabor; la presenza di un gruppo di eremiti armeni, attestata nel VII secolo da Eliseo Vardapet nel suo sermone sulla Trasfigurazione, il quale segnala anche la presenza di tre chiese, una centrale e più grande dedicata al Signore e due laterali, più piccole, dedicate a Mosè ed Elia.
Un secolo più tardi, Willibaldo, prima di essere nominato vescovo e missionario in Germania, si recò in pellegrinaggio in Terra Santa e nel 724 giunse al Monte Tabor: qui vide un monastero, dei monaci e una chiesa consacrate al Signore, Mosè ed Elia. Testimonianza confermata dal Commemoratorium de Casis Dei (circa 808), una lista di chiese e monasteri della Palestina redatta ai tempi di Carlo Magno, che attestata la presenza di un vescovo greco, Teofane. Alle soglie del X secolo, nel 976, l’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce visitò il Tabor in una delle sue vittoriose campagne in Siria e Palestina. Con l’avvento del Regno Crociato, poi, i Latini furono sempre più attratti da questo luogo, alla ricerca di una vita di solitudine e devozione. Gerardo di Nazaret, che scrive tra il 1140-1161, riporta la presenza di almeno quattro eremiti latini, che vivevano nelle grotte presenti sulle pendici del Tabor; ma fu la nomina di un abate latino a segnare la trasformazione della vita religiosa sul Monte della Trasfigurazione.
Quando Goffredo di Buglione divenne il primo sovrano del Regno di Gerusalemme nel 1099, affidò il governo della Galilea al principe Tancredi, la cui devozione e generosità si diressero proprio verso il Monte Tabor: qui egli decise di impiantare una fondazione benedettina, guidata dall’abate Geraldo, sostituendo la precedente presenza ortodossa. Nel 1101 Tancredi, con l’assenso del patriarca Dagoberto da Pisa e il re Baldovino I, affidò i beni appartenenti alla comunità greca a quella latina. Pochi anni più tardi, nel 1103, Papa Pasquale II prese l’abbazia del Monte Tabor sotto la sua protezione e investì del pallio l’abate Gerardo, che si trovò ad essere così inusualmente anche arcivescovo sulla Galilea e su Tiberiade; quando nel 1109 Nazaret divenne sede episcopale, il vescovo di Nazaret assunse di fatto la giurisdizione sul territorio, mentre l’abate del Tabor ritenne solo il titolo e la dipendenza diretta dalla Santa Sede. I monaci e l’abate Geraldo dovevano provenire, come il loro principe Tancredi, dal Sud Italia. Pietro il Venerabile, abate di Cluny (1122-1156), in una lettera indirizzata ai fratelli sul Monte Tabor, scrisse facendo intendere che i monaci fossero affiliati in qualche modo a Cluny. Questo però non implica che l’abbazia fosse inquadrata direttamente nell’ordine cluniacense: poteva significare anche averne assunto semplicemente i principi riformatori. Come molti monasteri benedettini, i monaci del Tabor preparavano i libri all’interno del loro scrittoio: sopravvive della loro biblioteca il commento di Macrobio al Somnium Scipionis ciceroniano.
Il Tabor però era anche luogo di scorrerie e scontri con i Saraceni: nel 1113 fu occupato e per breve tempo divenne il loro quartier generale. L’aggressione lasciò il monastero in gravi condizioni: non solo fu saccheggiato, ma le terre da cui venivano i proventi erano rimaste devastate e senza lavoratori, per questo due fratelli del Tabor vennero mandati da Raimondo, nuovo abate, in Italia meridionale alla ricerca di fondi. Da questo momento, fino alla metà del XII secolo, l’abbazia prosperò in un clima di relativa pace; a ciò si aggiunsero le numerose donazioni da oltremare. Ciò rese possibile anche la ricostruzione dell’abbazia benedettina: le fondamenta bizantine vennero incorporate nella nuova costruzione. L’ingresso era fiancheggiato da due torri campanarie, ognuna delle quali alla base conteneva una piccola cappella absidata; la chiesa principale aveva una cripta e una chiesa superiore e questa terminava con un grande catino absidale, decorato dal mosaico raffigurante la Trasfigurazione del Signore.
La situazione di pace cambiò con Saladino, che mosse il suo esercito verso la Galilea nell’estate del 1187 e una parte dei suoi uomini attaccò il Monte Tabor; dopo la disfatta dei Crociati ad Hattin, il Tabor venne definitivamente perso e la comunità monastica si rifugiò con ogni probabilità ad Acri. Nel 1217 un pellegrino constatò che il Tabor era orami diventato una fortezza saracena: non sembra che la chiesa avesse subito grandi danni, in quanto Gesù, Mosè ed Elia erano tenuti in grande venerazione da parte dei seguaci dell’Islam: probabilmente la chiesa era aperta al culto per i pellegrini e vi si poteva celebrare messa. Solo nel 1241 il Sultano riconsegnò il Tabor con altri possessi ai Crociati. La situazione ebbe breve durata, perché nel 1244 un esercito di mercenari islamici spazzò via ogni presenza benedettina. Infine nel 1255 Papa Alessandro IV affidò tutti i beni dei monaci del Tabor, nonostante le proteste, ai Cavalieri di San Giovanni, gli unici a poter garantire una reale difesa. Questi atti segnarono la fine definitiva della comunità benedettina del Tabor: i documenti confluirono nell’attuale archivio dei Cavalieri di Malta e i monaci rimanenti si dispersero. I Cavalieri non rimasero molto sul Tabor: nel 1263, sotto la minaccia di un’invasione, lasciarono il Monte e i Saraceni distrussero chiesa e monastero.
Nonostante la storia dell’abbazia del Tabor terminò con il 1255, questa esperienza monastica ebbe ripercussioni sulla vita liturgica della Chiesa. Secondo l’ipotesi di Baumstark, l’origine della festa in Occidente è da rinvenire nella commemorazione della dedicazione della chiesa sul Monte Tabor: i benedettini del Tabor mantennero la loro festa patronale, appunto quella della Trasfigurazione, il 6 agosto, esattamente come i Greci, cioè quaranta giorni prima del 14 Settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Così, a partire dalle dipendenze occidentali del Santo Sepolcro, questo uso si diffuse gradualmente in Europa anche se, secondo dom Mabillon, la festa esisteva almeno già in Spagna al tempo di Ildefonso di Toledo; anzi, egli la fa risalire a un tempo ancora anteriore, trovandola nel Missale Mixtum, che ritiene opera di Isidoro di Siviglia (560-636), che al 6 agosto porta la indicazione: Transfiguratio Domini. Omnia ut in dominico post Pentecosten. Queste testimonianze dimostrano l’antichità della festa in Spagna e in alcune diocesi della Gallia che con la Spagna ebbero intense relazioni. Se si tiene conto del fatto che Alfonso Borja, eletto papa col nome di Callisto III, era nato in provinca di Valencia, non stupisce la ragione per cui fu proprio lui a stabilire la festa della Trasfigurazione per la Chiesa universale, come azione di grazie per la schiacciante vittoria di Belgrado riportata contro i Turchi e ottenuta proprio nel giorno 6 agosto del 1456. Poi, per una coincidenza degna di nota, chiusa la sua vicenda terrena il 6 agosto del 1458.
Roma, rispetto alle tradizioni orientali, fu lenta ad accogliere questa festa, soprattutto perché nel rito romano la Trasfigurazione era da lungo tempo celebrata nella seconda domenica di Quaresima e poi perché il 6 agosto vedeva già la ricorrenza di Sisto II, papa e martire. In Occidente, comunque, furono i monaci cluniacensi a diffondere la festa del 6 agosto, adottandola sin dal 1132, sotto il governo di Pietro il Venerabile, nono abate del potente ordine. Pietro fece numerosi viaggi in Spagna e in Italia, oltre che in Francia e non dovettero esservi estranei nemmeno i rapporti tra Cluny e i monaci del monte Tabor, entrati nell’orbita, come si è visto, di Cluny. Nella lettera a loro indirizzata, Pietro manifesta una vera e propria invidia verso coloro che possono pregare e contemplare nel luogo dove l’apostolo Pietro aveva esclamato: «Domine, bonum est nos hic esse».
I monaci, anticipando il silenzio e la pace dell’eternità, si associano alla lode eterna con cui gli angeli celebrano Dio e partecipano nel segreto del loro cuore all’ascesi di Cristo: da qui la grande importanza della liturgia come servizio angelico alla presenza di Dio. Questa spiritualità si ritrova pienamente nel mistero della Trasfigurazione, che permette di contemplare la gloria di Dio nella carne del Cristo di pregustare sul monte il regno di Dio. Per questo, oltre ad aver iscritto la festa della Trasfigurazione nel calendario del suo ordine, Pietro il Venerabile ne stabilì l’intero ufficio: riprese quelle antifone, che già commemoravano l’evento della Trasfigurazione in Quaresima, completandolo secondo lo stile cluniacense (ogni ora prevede lettura e colletta propria), in modo da ottenere un ufficio monastico completo.