Subiaco. Padre Matta el Meskin ripeteva spesso che la stagione quaresimale era la primavera del monaco, un periodo nel quale raccogliere le scorte per la lotta spirituale da condurre durante il resto dell’anno. La primavera coincide con la stagione della Quaresima: non è un periodo cupo e grigio; al contrario, il cosmo si risveglia dal torpore invernale e la vita torna a riprendere vigore. E così il ciclo della natura ci ricorda che è salutare ritornare all’essenziale, lasciando cadere tutto quanto ha impedito la nostra crescita.
“La vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale” (RB 49,1), così scrive San Benedetto all’inizio del capitolo dedicato alla Quaresima, come a dire che la fioritura della vita spirituale non può considerarsi conclusa in quaranta giorni, ma è un tempo da dilatare anche negli altri mesi dell’anno. Una vita religiosa insipida e che non punti alla meta della Pasqua oggi non attira e non potrà attirare nessuno.
“Almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno” (RB 49, 3). Qui si sente l’influenza dei sermoni di Leone Magno: l’ideale da una parte, la triste realtà dall’altra. Benedetto non stila un capitolo organizzativo, ma dà piuttosto indicazioni pastorali: “dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno” (RB 49, 4). È una preghiera che scaturisce dal profondo del cuore, nella quale due abissi si fronteggiano: l’abisso del nostro peccato e l’abisso della misericordia di Dio. Non è una preghiera triste, ma fatta di purezza e verità. Anche la lectio, la lettura della parola di Dio, ha un posto privilegiato nella Quaresima. È come una spada che penetra (compungere significa trafiggere) l’anima o il bastone di Mosè che spacca la roccia, per farne sgorgare acqua. Solo alla fine si trova il digiuno: restringere i bisogni, tornare all’essenziale, per accrescere il desiderio di Dio.
Benedetto prosegue: “Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio con la gioia dello Spirito Santo qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l’animo fremente di gioioso desiderio” (RB 49, 5-7).
Oggi è molto difficile sentir parlare di privazioni o penitenza: una disaffezione che deriva dal fatto che queste sono, ormai, parole evocatrici di sacrifici e ulteriori disagi, in una vita che è già un quotidiano districarsi tra sfide e difficoltà di vario genere. Inoltre sembrano andare a scapito di quel valore più grande e centrale, che è la carità. Vangelo, Padri e tradizione monastica, però, ci assicurano che non possiamo liquidare la questione con troppa facilità: l’ascetismo occupa un posto vitale, perché assicura la concreta e quotidiana partecipazione del corpo alla vita spirituale. La purificazione della Quaresima ha come fine quello di aprirsi al dono dello Spirito Santo: in quest’opera ri-creatrice, Dio è l’artefice principale, che ristabilisce nell’uomo l’immagine distorta dai peccati, un po’ come le sapienti mani dello scultore estraggono dalla pietra o cavano dal legno la statua che ha in mente.
Gaudium: questo termine si trova, in tutta la Regola, unicamente in questo capitolo per ben due volte. Il monaco sperimenta la gioia a partire e durante la Quaresima e non solamente nella Pasqua. È importante rialzare il velo sul senso profondo dell’ascesi per il monaco, come per ogni cristiano. Questa gioia viene certamente dalla rinuncia alle gioie provvisorie e limitate, alle quali, per paura della sofferenza legata al processo di crescita, spesso rimaniamo tenacemente legati.
La gioia autentica, però, non è da confondere con un senso di esaltazione: si trova a una grande profondità, alla radice del nostro essere. Per Benedetto l’ascesi è sempre un’ascesi della gioia e ha poco a che fare con la forza di volontà o l’irrigidimento. La vera ascesi, dice André Louf, “è un abbandono sciolto e morbido di fronte alla gioia che ci abita, una distensione e un’apertura che permettono alla vita di trascorrere senza ostacoli e quasi senza fatica”.
Se ogni ascesi comporta un lavoro su sé stessi, che sia obbedienza, silenzio, umiltà, castità, digiuno e veglia, per Benedetto è tutto posto sotto il segno dell’amore, è tutto un mezzo per aprirsi allo scalpello della grazia di Dio. Benedetto compie una scelta significativa, non parlando propriamente di ascesi, ma di conversatio: è la vita quotidiana del monaco ad essere la sua ascesi, che viene verificata nell’amore per i fratelli.
Infine qualsiasi pratica ulteriore va sottoposta al padre spirituale: “Ciascuno sottoporrà al suo abate ciò che si propone di offrire a Dia e agirà solo con la sua preghiera e approvazione: poiché tutto ciò che viene fatto senza il permesso del padre sarà imputato a presunzione e vanagloria, non a merito” (RB 49, 8-10). La Regola si conferma così modello di moderazione e discrezione. Benedetto nel capitolo sulla Quaresima, come altrove, appare moderato, attento all’uomo e tendente a promuovere la vita umana in tutte le sue componenti. Rimuove i pericoli dell’eccesso e sgombra il campo dalla tentazione dell’orgoglio. L’ascesi benedettina è ingresso nella libertà, dove il monaco, con tutta la propria umanità, si rivolge e si slancia verso Dio.
Nessun dualismo, nessun disprezzo per il corpo contrario allo sviluppo della persona, nessuna svolta oppressiva e mortificante tipica di certo ascetismo degli ultimi secoli. Con la gioia dell’ascesi il nostro corpo si apre a diventare strumento docile ed efficace dello Spirito. L’ascesi benedettina, anzi, non è per i forti, ma per i deboli: si tratta di aggiungere o privarsi di qualche cosa. Tutto sommato nessuna prodezza, nessuna ricetta straordinaria.
La sua forza sta tutta nella grazia dello Spirito Santo e nel riconoscimento meravigliato della sua opera nei peccatori, che fa passare l’uomo da uno stato contro natura a uno stato secondo natura, secondo quell’unione in Cristo alla divinità che trasforma la natura umana nella pienezza di Dio: “il cuore si dilata e si corre sulla strada dei comandamenti di Dio in un’ineffabile dolcezza d’amore” (RB Prologo 49).