Periodico di informazione religiosa

I sentieri dello spirito. Il monachesimo benedettino alle origini dell’Europa

by | 17 Mar 2023 | Monasteria

Venerdì 17 marzo dalle ore 15.30 la Sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana ha ospitato l’incontro I sentieri dello spirito. Il monachesimo benedettino alle origini dell’Europa. Tra gli ospiti d’eccezione anche S.Em. Card. Gianfranco Ravasi e lo scrittore Paolo Rumiz. L’incontro è organizzato dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese in collaborazione con la Fondazione Treccani Cultura.

Massimo Bray ha introdotto l’incontro, spiegando che la candidatura nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco del progetto riguardante “il Paesaggio Culturale degli insediamenti benedettini dell’Italia medievale”  nasce dal desiderio di riconoscere il contributo fondamentale del monachesimo benedettino per l’eredità culturale e spirituale alle origini dell’Europa moderna. La proposta riguarda otto insediamenti benedettini italiani, localizzati principalmente nel centro-sud: Subiaco (Roma), Montecassino (Frosinone), Farfa (Rieti), San Vincenzo al Volturno (Isernia), San Vittore alle Chiuse (Ancona), Sant’Angelo in Formis (Caserta); per il nord la Sacra di San Michele (Torino) e San Pietro al Monte (Lecco). 

Sono intervenuti il P. Abate D. Gregory Polan, Primate della Confederazione Benedettina, il P. Abate D. Donato Ogliari, abate di San Paolo fuori le mura, che ha rivolto un saluto ai partecipanti in qualità di ex abate di Montecassino, il Cardinale Gianfranco Ravasi, al quale è stata affidata la prolusione, Maria Assunta Peci, Direttrice dell’Ufficio Unesco presso il Ministero della Cultura, Gabriele Archetti, ordinario di Storia Medievale all’Università Cattolica di Milano, Ruggero Longo, professore di Storia dell’Arte Medievale alla Scuola Alti Studi di Lucca, il P. Bernard Sawicki, professore al Pontificio Ateno Sant’Anselmo e la testimonianza conclusiva di Paolo Rumiz. Riportiamo di seguito gli interventi integrali dell’Abate Primate e di Paolo Rumiz.

Gregory Polan, parlando del monachesimo in Europa, ha affermato:

Come Abate Primate della Confederazione Benedettina, vi ringrazio sinceramente per questa meravigliosa impresa che dà espressione all’Ordine benedettino, per il ricco patrimonio che ha toccato la vita delle persone in Europa. Siamo tutti sulle spalle di coloro che ci hanno preceduto. Sono i loro sforzi, le loro realizzazioni e i loro sacrifici, che onoriamo in questo giorno. Il progetto di candidatura degli insediamenti benedettini altomedievali in Italia nella lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco è un grande onore, è un imponente tributo ai millecinquecento anni dell’Ordine di san Benedetto. Ci ricorda che da inizi molto semplici e umili, gli sforzi di uomini e di donne benedettini hanno portato avanti il semplice motto “ora et labora” e pace. E hanno preso ispirazione da San Benedetto, il santo uomo di Norcia, Subiaco e poi Montecassino e l’hanno portata avanti in un modo che, a quel tempo, non avrebbero mai creduto. La mano di Dio e l’ispirazione dello Spirito Santo hanno toccato gli sforzi dei monasteri di tutta Italia e non solo; così che l’opera di un desiderio genuino è sbocciata oltre ogni nostra immaginazione. Esprimiamo la nostra sincera gratitudine per questo grande onore datoci oggi. Le realizzazioni dei nostri antenati benedettini non sono state compiute solo dai monaci e dalle monache, ma anche dalla abnegazione di uomini e donne devoti è stato fatto molto. Uomini e donne con talenti di artigiani, muratori, calligrafi, musicisti ingegneri e sarti, che hanno lavorato con i monaci e sono stati anche pedagoghi e artigiani nell’ambito dei loro mestieri e dei loro talenti, per costruire e preservare l’eredità della vita monastica e la sua arte. Abbiamo anche assistito alla nascita di oblati laici, uomini e donne che hanno chiesto di stabilire legami spirituali con i monaci e le monache attraverso la preghiera quotidiana, i riti spirituali e il servizio alla comunità nel corso dei secoli. E tutto questo continua ancora oggi. È interessante notare che agli inizi, nella visione di San Benedetto, sul lavoro di un monastero, non c’era ambizione di diventare grandi studiosi e artigiani; nella mente di San Benedetto c’era solo una vita onesta e solida di preghiera e di lavoro per dare gloria a Dio, per essere al servizio della gente della zona. Nei primi secoli dei movimenti monastici la gente è stata ispirata a costruire città intorno ai monasteri, a valorizzare i talenti delle persone che vi abitavano e a creare un’atmosfera di bontà, carità, cura reciproca, lavoro con i monaci e di un’ambiente veramente cattolico. La gente viveva con l’esempio dei monaci e delle monache ed è così che la civiltà ha continuato a crescere per centinaia di anni, influenzando profondamente lo sviluppo di quelle che sono diventate le città, dove le persone vivevano e lavoravano insieme per il bene di tutti. Il motivo principale e la forza trainante di questo stile di vita benedettina era qualcosa di così semplice, così umile eppure così importante per la nostra vita di oggi: la pace. San Benedetto nella sua regola, cita il Sal 34: “cerca la pace e perseguila”. Se guardiamo alle radici antiche e bibliche della parola pace, capiamo che più di un’assenza di ansia, preoccupazione e paura, la pace è radicata nell’interezza della vita, nel benessere a tutti i livelli della vita: salute tranquillità interiore, serenità della vita in relazione agli altri. L’influenza di questa pace nel mondo monastico si riversa sulla vita di coloro che entrano in contatto con i monasteri, i suoi membri e il loro stile di vita. Come si vede nel versetto del salmo, l’obiettivo della vita è possedere questa pace a tutti i livelli del nostro essere. Certamente questo riguarda la scena mondiale, dove purtroppo oggi continuano ad esserci molta violenza, guerra e disordini civili. Cerchiamo tutti di vivere in un’atmosfera di pace, buona volontà e armonia reciproca. Queste umili origini della tradizione monastica hanno dato vita e grandi frutti nei movimenti della storia: pensate a ciò che è nato dai nostri monasteri. Ricchi sviluppi culturali, uguaglianza sociale, stabilità economica, cura per l’ambiente, crescita dell’istruzione e ordine politico per il benessere di tutti. Noi come monaci benedettini ci sentiamo lusingati di fronte all’eredità che si è sviluppata nel corso dei secoli: da inizi semplici e onesti nel corso del tempo si sono sviluppate grandi cose. Vi ringraziamo per questo meraviglioso onore della candidatura dei figli e delle figlie di San benedetto nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Grati per la grazia di Dio che ci ha condotto fino a qui a fiduciosi nel futuro, per continuare a essere ambasciatori di pace, buona volontà e servizio per tutti”.

Il card. Gianfranco Ravasi ha suddiviso la presentazione in una premessa, un trittico e una conclusione. Il motto celebre “ora et labora” è servito da premessa:

è interessante notare il commento che fa a questo motto un filosofo protestante dell’800, Kierkegaard, il quale commenta sostanzialmente così: quandoo l’umanità era nell’interno del giardino dell’Eden, continuava a coniugare il verbo “orare”. Poi fu estromessa, entrò nelle vie polverose e faticose della storia e lì cominciò a praticare l’altro appello: “labora”. Quando è arrivato Benedetto, però, il monachesimo benedettino è stato capace di unire tuti e due i verbi col suo ora et labora”. Ora et labora sono due elementi che si incrociano tra di loro: da un lato la dimensione verticale e trascendente dell’opus Dei, cioè la liturgia e la preghiera; dall’altra parte la dimensione orizzontale, l’impegno immanente nel monastero, un legame molto stretto di relazioni concrete. E poi l’inevitabile riferimento al libro dell’americano Rod Dreher, intitolato “Opzione Benedetto”: “Questo libro era scritto – come una certa corrente conservatrice americana sottilmente e implicitamente fa capire – in polemica con Papa Francesco, con le opzioni pastorali di Papa Francesco e per esaltare non tanto Benedetto, ma il Papa Emerito Benedetto XVI. Il tema fondamentale è che Benedetto aveva introdotto l’oasi protetta, la fortezza, dove si custodiva l’autenticità del credere, nei confronti ormai di un’avanzata dell’avanzata secolarizzante, che tenta di asfissiare questo respiro di fede”. In realtà si tratta di una ricostruzione storica falsata, prosegue il cardinale, in quanto “il mondo benedettino non è stato un mondo esoterico; è stato invece un mondo essoterico, cioè  è uscito, è entrato e proprio questa iniziativa con l’Unesco vuole in qualche modo dimostrare, come Paolo VI diceva, che il mondo di Benedetto ha alzato una croce, la cui ombra però si estendeva nell’interno dell’Europa stessa e nell’interno della società”.

Il trittico è costituito dai tre universali introdotti dalla classicità antica e cristiana: verum, bonum e pulchrum. Il verum è la dimensione della ricerca della verità, attraverso la riflessione teologica e filosofica ed è stato esemplificato nel mondo benedettino tramite lo scriptorium, il luogo in cui si univa la cultura classica a quella cristiana e si è tramandata la cultura greco-romana per i secoli successivi. Grande importanza nella storia del pensiero, inoltre, hanno avuto i teologi benedettini, come Alcuino di York, Anselmo d’Aosta, Rabano Mauro, Paolo diacono, Beda il Venerabile, Gregorio VII a anche la figura minore di Silvestro II, Geberto di Aurillac. Il secondo universale è il bonum, che indica l’impegno di solidarietà e l’impegno morale ed esistenziale dei monasteri: l’abbazia era prima di tutto una famiglia, con a capo l’abbas, cioè il padre del monastero. Dall’altra parte la rete economica e sociale che si estendeva a partire dal monastero, “permetteva perciò che si costruisse veramente un panorama nel quale la società poteva avere i suoi strumenti per realizzarsi e attuarsi”.

Il terzo universale è il pulchrum, il bello, “che era rappresentato da un modello, la via pulchritudinis: non era soltanto una sorta di impegno ecclesiale, ma era una vera e propria riflessione teologica”. Già gli artisti senesi del ‘300 nei loro statuti scrivevano: “noi vogliamo rappresentare le grandi azioni di Dio a coloro che non sanno lettura”. L’arte era la famosa biblia pauperum, la via pastorale, ma al tempo stesso una delle grandi vie teologiche a partire dal versetto di Sap 13,5: “dalla grandezza e dalla bellezza delle cose create, noi ascendiamo gradino per gradino al loro artefice”. Si è parlata di arte benedettina che intercorreva tra IX e XII secolo, nelle sue varie espressioni: architettura, miniatura, scultura e pittura. E poi un ricordo personale: “Vorrei citare quello della mia terra: sono lecchese di nascita e questo grande luogo dei miei pellegrinaggi da ragazzo è San Pietro al Monte di Civate. L’interno è stato rappresentato attraverso tutta la simbologia dell’Apocalisse”, che non è la descrizione della fine del mondo, ma il messaggio del fine della storia.

Il cardinale ha affidato la conclusione a due voci, a Papa Benedetto XVI con il discorso tenuto il 12 settembre 2008 al Collège de Bernardins e poi alla Regola di San Benedetto. “La ricerca di Dio”, scriveva il Pontefice “richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola: o, come si esprime Jean Leclerc : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra. Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola”. La seconda voce è quella di San Benedetto, il quale proponeva ai suoi “Nihil asperum, nihil grave” e, attraverso un imperativo negativo: “Noli contristari”.

In conclusione la toccante testimonianza di Paolo Rumiz, sul monachesimo, nel suo viaggio tra i monasteri d’Europa, che è stato la fonte del suo libro “Il filo infinito”.

Tutto era iniziato a Norcia, io non so dire se sono io che ho incontrato Benedetto o è Benedetto che ha incontrato me. Ma è una cosa, è un dubbio che capita spesso ai viaggiatori: fatto sta che io seguivo quell’anno la linea di faglia del terremoto di Amatrice, a piedi, e quando scesi dai Monti Sibillini in una magnifica sera, in un magnifico tramonto di color viola, con i primi ciliegi che fiorivano sulle pendici delle montagne, arrivai quasi senza accorgermene dentro le mura di Norcia. Lì mi trovai di fronte alla statua intatta di Benedetto in mezzo alle rovine della città. E questo caso mi colpì molto: a parte che c’era scritto sotto che era il Protettore d’Europa, ma quello che mi colpì molto fu che io non sapevo niente di lui, nemmeno in che secolo fosse vissuto; non sapevo niente di quest’uomo, però sentivo che c’era un messaggio in quella statua intatta in mezzo alle rovine. Cosa mi diceva sempre quel dito indice, che mostrava le chiese distrutte intorno a me? Mi diceva: l’Europa tornerà in macerie? Stiamo andando verso un’altra guerra? Oppure era un messaggio di consolazione? Anche se dovesse tornare il tempo delle macerie, io resterò saldamente in piedi, il senso della mia Regola resterà ancora valido, forse per l’Europa di oggi. E passai un’intera notta durante quel viaggio, a studiare chi fosse Benedetto. E fu un colpo di fulmine: mi trovai di fronte a una generazione di giganti, che avevano rimesso in piedi un mondo devastato, dopo il crollo dell’impero romano. E quindi capii che quell’incontro era fondamentale per la mia vita: ero di fronte a un bivio, dovevo decidere se seguire quel sentiero. E decisi di seguirlo. C’era proprio qualcuno che mi chiamava dall’antichità e mi diceva: fai questa strada, vedrai che troverai delle cose, che fanno parte della tua ricchezza interiore e la renderanno ancora più ricca. Ma lì mi posi una domanda; che nesso c’era tra quel viaggio sismico e l’incontro con quel santo? Come mai questa straordinaria generazione di uomini, Benedetto e i suoi primi seguaci, erano nati proprio lì? E mentre mi ponevo questa domanda, il monastero di Praglia mi invitò a partecipare a un incontro sulle terre perdute, sulle terre disastrate. Lì capii che forse veramente il nesso esisteva, se un monastero mi chiedeva di raccontare la mia testimonianza sul terremoto. E preparando questa testimonianza da tenere a Praglia, un pensiero mi illuminò cioè: da dove poteva venire un uomo che aveva dato una mano formidabile alla ricostruzione di un’Europa in macerie, se non da un uomo nato in una terra abituata alle macerie dei terremoti? C’è una generazione di uomini profondamente concreti e abituati a rimboccarsi le maniche e ripartire da zero, una generazione di uomini più forti di quelli che abitano le terre, non sismiche. Io pur lavorando per un giornale laico, come Repubblica, ebbi un riscontro formidabile a livello di lettura di quanto stava accadendo. La stessa cosa era successa quando due anni prima, nel 2015, avevo percorso a piedi la Via Appia senza rendermi minimamente conto che nessuno, negli ultimi due secoli, l’aveva integralmente seguita a piedi. In entrambi i casi era scattato un pensiero: come era possibile che l’Italia che aveva in mano una delle prime strade strutturate dell’umanità, non si rendesse conto del patrimonio che aveva e andasse a seguire il venerando cammino di Santiago? La stessa cosa mi è scattata con il mondo benedettino: com’era possibile che l’Italia non si rendesse conto di essere al centro di un movimento che aveva in qualche modo dato il la all’Europa? Com’era possibile? Il fatto stesso che luoghi come Norcia o come tanti altri paesi che erano stati coventrizzati dal terremoto, non fossero stati ricostruiti subito: evidentemente il paese non si rendeva conto che quella era le terra da cui era partita la ricostruzione. Ma se non tu ricostruisci i luoghi da cui è partita la ricostruzione, non conosci neanche la tua identità peninsulare, sismica pastorale, che è quella dell’Italia. È stato un viaggio, devo dire, straordinario: le cose che mi hanno subito colpito: il fatto che il mondo bendettino non fosse un ordine, ma un disordine democratico, così mi fu detto. C’è una diversità totale da un monastero all’altro: mi rendevo conto che ero di fronte a cose completamente diverse le une dalle altre. Era un ambiente che non aveva niente a che fare con le gerarchie vaticane, era una vera e propria federazione. Questo mi colpì molto e mi dissi subito: quanto utile sarebbe questo pensiero per un’Europa, che rischia di essere freddamente centralista! Un monaco mi disse: per noi il centralismo è demoniaco. Un’altra cosa che mi colpì è che i monaci non avevano mani da prete: avevano mani con i calli, perché erano uomini concreti, che si rimboccavano le maniche. E un’altra cosa che subito mi colpì, prima ancora di approfondire il viaggio, fu la sensorialità dell’offerta religiosa: mi catturarono con il canto, con l’incenso, con il profumo del pane, con delle cose che sono secondo me un viatico essenziale, che non è da trascurare. Non basta il catechismo per avvicinarti a Dio; è utile anche questo, sono frutti santi delle mani dell’uomo. Il viaggio è durato più di un mese, ma avrebbe potuto durare un anno; il libro è stato tradotto, il Filo Infinto, in più lingue [..] E quindi in realtà è un viaggio che non finirà mia. Ecco, quali sono le cose che oggi l’Europa potrebbe imparare da Benedetto? Viviamo in un momento in cui il continente e l’Unione Europea in particolare viaggia in uno stato di sonnambulismo verso il rischio gravissimo di una guerra. Allora mai come oggi noi abbiamo urgenza di recuperare quelli che sono i fondamenti dell’Europa: si può partire dal mito d’Europa antico, per cui Europa è il punto d’arrivo dei popoli da sempre, l’Europa è per forza legata all’Asia, l’Europa è femmina, questo ci dice per esempio il mito. Abbiamo tantissimi altri insegnamenti, ma torniamo a Benedetto. Io voglio partire da un’immagine, che è rimasta scolpita nella mia mente: l’incontro tra Benedetto e Scolastica, sua sorella. I due partono dai rispettivi monasteri e si incontrano a metà strada. Già in questo c’è un segno della parità maschio e femmina. I due si incontrano a metà strada. È già un segno formidabile di parità di genere, di cui l’Europa ha bisogno oggi. Ma come va avanti questo incontro? È straordinario: alla fine dell’incontro, in cui i due si mettono a confronto sulle loro rispettive esperienze, Benedetto dice: guarda che sta tramontando, io devo tornare, perché ho il vincolo della stabilitas, devo tornare al monastero. Lei lo guarda e gli dice: fratello, cos’è più importante? la regola o l’amore? E lui si rende conto che sua sorella ha ragione e rimane e pernottano sul posto, prima di lasciarsi il giorno dopo. Quindi già qui siamo di fronte a qualcosa di straordinario; quanto diceva mons. Ravasi, nihil asperum, accetta la dolcezza, accetta la letizia, c’è la regola, ma c’è anche qualcosa di molto più importante. L’Europa nei secoli successivi sarebbe stata invasa da un monachesimo molto più duro e molto più penitenziale, che arrivava dall’oceanica Irlanda, dove i monaci vivevano nel gelo più assoluto e importano in Europa una visione penitenziale della fede durissima. Credo che Benedetto abbia in qualche modo compensato il rischio di una fede cosi dura, portando avanti l’idea dell’amore come elemento superiore alla fede. E la stessa cosa l’ora et labora: io ho l’impressione che Benedetto in qualche modo abbia fatto un ideale equilibrio tra opposti. Ora et labora: non è un caso che tantissimi capitani di industria vadano a bussare ai monasteri benedettini, per capire per quale diavolo di motivo la loro azienda non va avanti. la competizione interna distrugge il patriottismo aziendale, distrugge la voglia di fare; si rendono conto che esiste quello che Benedetto chiama lo zelo amaro, cioè non il lavorare per il gusto di lavorare, per il gusto di stare assieme, per il piacere dell’opera fatta bene, ma l’istinto animale di lavorare per fregare il vicino e per la competizione interna. Un’altra cosa straordinaria che ho visto raffigurata in un affresco a Norcia è l’immagine di un barbaro che dimentica la propria vanga a terra e il santo la raccoglie e gliela dà. E questo è un gesto fantastico: il primo è che al barbaro viene affidato il lavoro manuale, ma il santo dandogli la zappa gli dice: ricordati del tuo lavoro è santo e degno come il lavoro che faccio io, per esempio nello scriptorium. E quanti monaci mi hanno detto che in un monastero l’ostensorio e la zappa hanno lo stesso valore, la stessa santità, la stessa dignità. E questo è importante oggi, specialmente in un mondo come quello che viviamo oggi, in cui l’economia vive di schiavitù e vive di stranieri, il cui lavoro non è per niente santificato. [..] Poi c’è l’equilibrio straordinario tra buio e luce che tu incontri nei monasteri. Ricordo una sera sono arrivato al monastero al di Saint Wandrille e ho visto uscire nel semibuio una teoria di monaci che si sono allineati in formazione a semicerchio davanti a una croce, che era l’unica cosa illuminata della chiesa. Il brivido che tu provi di fronte al canto che nasce da questi uomini che parte dal buio, fa parte di questo gioco sensoriale straordinario, che attira anche il laico, anche il più anticlericale. Per questo non mi sono mai sentito così a casa come nei monasteri. Altro grande equilibrio è quello tra l’obbedienza nei confronti dell’abate, ma contemporaneamente il dovere dell’abate di sentire la voce di tutti, anche dell’ultimo arrivato, anche del più giovane, anche del più stupido. Tante volte un’idea straordinaria può venire da un naif, che alza la mano e dice: il re è nudo. Lo trovo straordinariamente utile per quest’Europa strana che viviamo oggi. E l’ultimo elemento è questo equilibrio tra la stabilitas e l’erranza. Il che secondo me fa capire quanto è falsa la dicotomia tra Francesco e Benedetto, che con un istinto manicheo i giornali oggi si accaniscono a rappresentare. Non esiste tutto questo secondo me, perché se i monaci benedettini fossero stati dei misantropi arroccati dentro il loro fortilizio della fede, oggi l’Europa non si scoprirebbe scolpita dalla vanga dei monasteri benedettini, dalla mano callosa dei benedettini. Noi non ci rendiamo conto quanto di benedettino abbiamo intorno, quanto nel paesaggio e persino nel nostro modo di mangiare, dal parmigiano allo champagne, sono cose benedettine; anche la norcineria, sono cose loro. Cosa c’è di più europeo, così chiaramente europeo di questo?  E quindi per non parlare del fatto che non è che uno nasce in quel luogo, ma significa che uno nell’itinerario della propria vita sceglie quel luogo e da quel momento lo adotta e lo difende e attraverso la difesa di quel luogo, ma attraverso l’appartenenza a quel luogo difende un pezzo del creato [..] Mai come oggi in questo momento geopolitico di grande pericolo sia fondamentale per l’Europa – e per l’Italia in particolare, che si ritrova baricentro di tutto questo – a non essere silenziosa di fronte ai grandi eventi che ci inquietano”.

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