III domenica di Pasqua
Il prodigio della guarigione dello storpio alla porta Bella suscita stupore nel popolo. La fonte, dichiara Pietro, è il Dio di Abramo e di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei padri, che ha glorificato il suo servo-figlio Gesù. Gesù è Figlio di Dio in quanto servo e fratello e Dio lo ha glorificato. Proprio quel Gesù che avete ucciso, il Santo e il Giusto, il Dio dei padri l’ha rivestito di gloria. Non è un’accusa per umiliare e avere l’ultima parola definitiva, Pietro invita nel profondo a prendere coscienza che quella croce era proprio per voi, cioè per noi che siamo qui. È bellissima la definizione di Gesù come autore, principio, anche condottiero della vita. Gesù è colui che conduce tutti al principio, alla sorgente della vita, che è Dio. Così facendo, dando la vita per noi, Gesù ci ha dato il principio della vita e ci ha riaperto la via alla comunione col Padre, quel Padre che è amore senza condizioni, perché un amore che ha delle condizioni non è amore, ma è egoismo ed è la fine della vita.
E Gesù si manifesta ai discepoli, che troviamo descritta da Luca come una comunità cristiana reale, che unisce confessione di fede a dubbio, gioia a incredulità. Cristo Risorto, presentandosi in mezzo ai suoi, fa regnare la pace tra di loro. Il primo servizio che il Risorto fa alla sua comunità è la pace. La pace non è una situazione, non è uno stato d’animo, prima di tutto la pace è Qualcuno. Cristo è la pace che porta la benedizione, Cristo è la pace che fonda la comunità, Cristo è la pace che tocca personalmente e riconcilia con se stessi e con gli altri. Cristo è quell’uomo umile, disarmato e sofferente, ma pieno di amore e di pace che mostra le sue mani e il suo fianco dicendo: “La pace sia con voi”.
La pace e l’amore, scriveva Clemente di Alessandria, sono fratelli semplici e tranquilli che non hanno bisogno di armi, non hanno bisogno di preparativi straordinari. La pace e l’amore si nutrono della Parola, quella parola che ha il compito di indicare la via, la vita, quella Parola dalla quale impariamo la semplicità, la modestia, l’amore per la libertà, per gli uomini, per il bene, quella Parola che ci fa Dio.
Ma non basta tutto questo. Non asta che Gesù sia visto, ascoltato, toccato, che mangi davanti ai discepoli: senza le Scritture, senza l’apertura della mente all’intelligenza delle Scritture, non può nascere la fede pasquale, non si può abbracciare la confessione che on Gesù è venuta la salvezza del Padre. Diceva Ugo di San Vittore che la parola di Dio, rivestita di carne umana, una sola volta si è manifestata in modo visibile e ora questa stessa Parola viene a noi nascosta nella pagina scritturistica e nella voce umana che l’annuncia e la proclama.
“Di questo siete testimoni”, dice Gesù, del fatto che le Scritture si compendiano nel mistero pasquale, che le Scritture si compiono nella resurrezione di Cristo. Il testimone, in greco martire, è innanzitutto colui che medita e ricorda la Scrittura e da lì nasce la sua missione, come annuncio della misericordia di Dio e della remissione dei peccati. La testimonianza vera è la vita, anche il dono della vita, è portare nel cuore Lui che ci amato così, e quindi viviamo come Lui e siamo testimoni di Lui.
“Toccatemi”, dice Gesù mostrando la carne piegata e ferita della sua umanità. L’incontro del mistero del risorto lo si fa spesso con l’enigma del male, nella carne dei sofferenti e nei corpi delle vittime del male. Il Corpo può essere incontrato nei corpi dei sofferenti che sono tra di noi, perché Gesù non è uno spirito e il cristianesimo non è uno spiritualismo disincarnato, ma prende sul serio il dolore personale e il dolore del mondo. Il dolore, la pace, le ferite, l’amore, la morte, la vita: ecco il sano materialismo dei discepoli del Risorto.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe 14, 76-78
“E nella mia carne vedrò Dio”. Ecco, egli afferma in termini chiari la risurrezione, la pelle, la carne. Quale motivo di dubbio può ancora rimanere nella nostra mente? Ora, se questo santo, prima che avvenisse la risurrezione del Signore, credeva che la carne sarebbe stata integralmente restituita alla propria condizione naturale, quanto sarà colpevole il nostro dubbio, se non crediamo alla vera risurrezione della carne neppure dopo l’esempio del Redentore? Se infatti dopo la risurtezione il corpo non fosse palpabile, vorrebbe dire che risorge un altro essere, diverso da quello che è morto: il che è assurdo, perché muoio io e risorge un altro. Perciò ti prego, o beato Giobbe, esprimi il tuo pensiero e rimuovi ogni incertezza su questo problema. E continua: “Lo vedrò, io stesso, lo contemplerò con i miei occhi, io e non un altro”. Se infatti, come immaginano certi seguaci dell’errore, dopo la risurrezione il corpo non sarà palpabile, ma si chiamerà carne sottile di un corpo invisibile senza che abbia sostanza di carne, vorrebbe dire che chi risorge è diverso da beato Giobbe distrugge simile opinione con queste parole di verità: “Lo vedrò, io stesso, lo contemplerò con i miei occhi, io e non un altro”. Noi però, che seguiamo la fede del beato Giobbe e crediamo che dopo la risurrezione il corpo del nostro Redentore era veramente palpabile, confessiamo che la nostra carne dopo la risurrezione sarà la stessa e diversa a un tempo: la stessa per natura e diversa per la gloria, la stessa nella sua verità e diversa nella sua potenza. Sarà dunque sottile, perché incorruttibile; sarà palpabile, perché non perderà l’essenza della sua vera natura.