Periodico di informazione religiosa

IV domenica di Pasqua. Il Tempo di Pasqua con Gregorio Magno

by | 21 Apr 2024 | Monasteria

IV domenica di Pasqua

Dopo aver nominato il Nazareno, crocifisso e risorto dai morti, Pietro spiega chi è Gesù: è quella pietra che non valeva niente, che era stata rigettata e che ora è diventata la pietra angolare, il nuovo tempio in cui abita la pienezza della divinità. Il Figlio è in comunione con il Padre e solo in questo nome c’è salvezza. Una salvezza che è un amore infinito per tutti, che ha una potentissima carica liberatoria. La Pietra ha anche un altro nome: “Gesù Cristo è il pastore della chiesa universale sparsa su tutta la terra”, come recita il Martirio di Policarpo. Il Signore poteva anche essere raffigurato come vignaiolo e seminatore, ma rimaneva in maniera più familiare nell’immaginario d’Israele il pastore del gregge. I patriarchi, Mosè, Davide, erano tutti i pastori e quindi il pastore divenne un’immagine per indicare i capi del popolo di Dio. Ma ci sono anche pastori malvagi e mercenari, avverte il profeta Ezechiele: Dio denuncia quei pastori che non si sono preoccupati del gregge e lo hanno depredato, trascurando i deboli, i malati e gli smarriti. Le pecore si sono perdute e nessuno se ne cura. Chi andrà in cerca della pecora perduta? Ecco realizzarsi la promessa divina, è venuto il buon pastore promesso. L’aspetto specifico della descrizione di Giovanni è la disposizione del pastore a morire per le sue pecore. Se nella parabola sinottica della pecora smarrita si mette in luce la premura che il pastore ha per quell’unica che si è smarrita, il testo di Giovanni estende il rischio del pastore fino al punto della morte. È un pastore che sacrifica la sua vita, perché altri abbiano la vita in abbondanza. È un pastore che si consegna e si fa uccidere come pecora per le pecore e non oppone resistenza al patire. È un pastore che non respinge quelli che lo mettono in croce, che accoglie la morte, perché ha il potere di dare la sua vita a riprenderla di nuovo. È un pastore che conosce intimamente le sue pecore: Gesù le conosce per nome ed esse riconoscono la sua voce. Lo scopo di questa conoscenza è di portare il gregge dei fedeli all’unione reciproca con Gesù e con il Padre e a questa comunione sono chiamate altre pecore che non appartengono all’ovile. Chi decide di seguire Gesù è chiamato a far risplendere nella propria vita questo amore, persino con la disponibilità a offrire la propria vita l’uno per l’altro. Il credente è colui che conosce il Signore, ascolta la sua voce e lo segue. Sono azioni che introducono nel cuore della vita spirituale e conducono verso l’unità interiore, fino a quando diventeremo un solo gregge sotto un solo pastore.

Gregorio Magno, Regola Pastorale I, 10

Deve essere trascinato a divenire esempio di vita in tutti i modi, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi.

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