Periodico di informazione religiosa

VI domenica di Pasqua. Il Tempo di Pasqua con Gregorio Magno

by | 5 Mag 2024 | Monasteria

VI domenica di Pasqua

“Questo è il mio comandamento”. Giovanni ripete per due volte un’affermazione che dobbiamo capire bene. Gesù, dopo aver detto ai suoi discepoli: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”, aggiunge: “Questo è il mio comandamento; che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amati voi .. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri”. Come può Gesù comandare l’amore, che è quanto di più spontaneo possa esistere? Amare Dio con tutta l’anima e con tutte le forze è il primo e più grande dei comandamenti e amare il prossimo come se stessi, il secondo comandamento (Mt 22,37-39). Che rapporto ci può essere tra amore e dovere, tra spontaneità e obbligo? Facciamo un passo indietro. C’è un comando che viene dall’esterno, quindi da una volontà che non è la nostra; ma c’è anche un comando o obbligo che viene da dentro, che nasce dal profondo del cuore, da cui ci sentiamo spinti e attratti. Diceva sant’Agostino che ognuno di noi è attratto da ciò che ama, senza che subiamo alcuna costrizione dall’esterno. Mostra a un bambino un giocattolo e lo vedrai slanciarsi per afferrarlo! Chi lo spinge? Nessuno, è attratto dall’oggetto del suo desiderio. L’amore è come un “peso”, un dolce giogo dell’anima che attira verso l’oggetto desiderato, che riesce a far fare quello che nessuna legge esterna e scritta sarebbe in grado di spingere. Persino dare la vita per qualcuno.

Ma se è così, che bisogno c’era di fare di questo amore un comandamento e un dovere? La realtà è che finché siamo circondati dai tanti beni di questo mondo, siamo in pericolo di sbagliare bersaglio, smarrendo la traiettoria nel tendere a Dio. I comandamenti di Dio ci aiutano in questo. Essi sono per il nostro bene, non per quello di Dio. Il grande filosofo Kierkegaard scriveva: “Soltanto quando c’è il dovere di amare, allora soltanto l’amore è garantito per sempre contro ogni alterazione; eternamente liberato in beata indipendenza; assicurato in eterna beatitudine contro ogni disperazione”. L’uomo che ama, che ama veramente, vuole amare per sempre! Il vero amore ha come unico orizzonte il per sempre, l’eternità; se no sarà al massimo un “amabile malinteso” o un “pericoloso passatempo”, come lo chiamava il filosofo danese. La parola di Gesù ci aiuta a mostrare il profondo e vitale rapporto che c’è tra dovere e amore, tra decisione e istituzione, sottraendolo alla volubilità e lo ancora all’eternità. Chi ama, è ben felice di “dovere” amare; questo gli sembra il comandamento più bello e liberante del mondo!
Il sentimentalismo, il romanticismo non bastano; occorre la grazia, quell’aiuto che viene dall’alto e che sana la nostra capacità di amare ferita e indebolita dall’egoismo e dona costanza e perseveranza. È sempre Giovanni che ci svela la sorgente segreta di questa grazia: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi”. Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo. Gesù per primo si è legato a noi con un patto di amore eterno. E non ci ha amato per primo una sola volta, ma sempre, ogni giorno, ogni momento, ci ama per primo. Ti rendo conto di quanto Dio è stato buono con te, di quanto ti ha amato? Grazie a questa sorgente inesauribile possiamo trovare la forza per amare, a nostra volta Dio e il prossimo, chiedere e ottenere il perdono, ogni volta che abbiamo mancato di farlo. Scriveva Agostino: “L’amore, la libertà interiore e l’adozione filiale non si distinguono se non per il nome, come la luce, il fuoco e la fiamma. Se il viso di un essere amato ci rende felici, che mai farà la forza del Signore quando verrà ad abitare in segreto nell’anima purificata? L’amore è un abisso di luce, una fonte di fuoco. Più zampilla, più brucia l’assetato. E per questo che l’amore è un progresso eterno”.
Il cristiano è una persona cui Dio ha affidato gli altri; siamo affidati gli uni agli altri e responsabili gli uni degli altri. La sola cosa che il cristiano deve possedere veramente è la convinzione di una vita interamente donata a Dio e offerta, attraverso Dio, agli altri uomini. È quanto ci insegna un’immensa schiera di appassionati testimoni lungo tutta la storia della Chiesa. 

Gregorio Magno, Dialoghi II, 33

Benedetto aveva una sorella di nome Scolastica, che fin dall’infanzia si era anche lei consacrata al Signore. Essa aveva l’abitudine di venirgli a fare visita, una volta all’anno, e l’uomo di Dio le scendeva incontro, non molto fuori della porta, in un possedimento del Monastero. Un giorno, dunque, venne e il suo venerando fratello le scese incontro con alcuni discepoli. Trascorsero la giornata intera nelle lodi di Dio ed in santi colloqui, e quando cominciava a calare la sera, presero insieme un po’ di cibo. Si trattennero ancora a tavola e col prolungarsi dei santi colloqui, l’ora si era protratta più del consueto. Ad un certo punto la pia sorella gli rivolse questa preghiera: “Ti chiedo proprio per favore: non lasciarmi per questa notte, ma fermiamoci fino al mattino, a pregustare, con le nostre conversazioni, le gioie del cielo… “. Ma egli le rispose: “Ma cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero”. La serenità del cielo era totale: non si vedeva all’orizzonte neanche una nube. Alla risposta negativa del fratello, la religiosa poggiò sul tavolo le mano a dita conserte, vi poggiò sopra il capo, e si immerse in profonda orazione. Quando sollevò il capo dalla tavola si scatenò una tempesta di lampi e tuoni insieme con un diluvio d’acqua, in tale quantità che né il venerabile Benedetto, né i monaci ch’erano con lui, poterono metter piedi fuori dell’abitazione. La santa donna, reclinando il capo tra le mani, aveva sparso sul tavolo un fiume di lagrime, per le quali l’azzurro del cielo si era trasformato in pioggia. Neppure ad intervallo di un istante il temporale seguì alla preghiera: ma fu tanta la simultaneità tra la preghiera e la pioggia, che ella sollevò il capo dalla mensa insieme ai primi tuoni: fu un solo e identico momento sollevare il capo e precipitare la pioggia. L’uomo di Dio capì subito che in mezzo a quei lampi, tuoni, e spaventoso nubifragio era impossibile far ritorno al monastero e allora, un po’ rattristato, cominciò a lamentarsi con la sorella: “Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella benedetta; ma che hai fatto?”. Rispose lei: “Vedi, ho pregato te e non mi hai voluto dare retta; ho pregato il mio Signore e lui mi ha ascoltato. Adesso esci pure, se gliela fai: e me lasciami qui e torna al tuo monastero”. Ormai era impossibile proprio uscire all’aperto e lui che di sua iniziativa non l’avrebbe voluto, fu costretto a rimaner lì contro la sua volontà. E così trascorsero tutti la notte vegliando e si riempirono l’anima di sacri discorsi, scambiandosi a vicenda esperienze di vita spirituale.

Con questo racconto ho voluto dimostrare che egli ha desiderato qualcosa, ma non riuscì ad ottenerla. Certo, se consideriamo le disposizioni del venerabile Padre, egli avrebbe voluto che il cielo rimanesse sereno come quando era disceso; ma contrariamente a quanto voleva, si trova di fronte ad un miracolo, strappato all’onnipotenza divina dal cuore di una donna. E non c’è per niente da meravigliarsi che una donna, desiderosa di trattenersi più a lungo col fratello, in quella occasione abbia avuto più potere di lui perché, secondo la dottrina di Giovanni: “Dio è amore”; fu quindi giustissimo che potesse di più colei che amava di più!

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