Martedì della III settimana di Pasqua
Stefano ha parlato fin qui della fedeltà di Dio, attraverso le figure di Abramo, Giuseppe e Mosè: il ricordo della fedeltà di Dio e della nostra infedeltà è il richiamo più forte per la conversione. Anzi alla nostra infedeltà estrema Dio risponde dalla croce con la sua fedeltà portata all’estremo: il Figlio, il testimone ultimo e definitivo, lo rivela come amore più forte di ogni infedeltà. La durezza di cuore vale tanto per i discepoli quanto per gli oppositori di Gesù e il discorso di Stefano prova che purtroppo è ancora in azione della storia, anche ai nostri tempi nulla è cambiato. Come questa durezza è stata la causa della morte di Gesù, così sarà causa della morte di Stefano ed è causa del martirio nella vita della Chiesa. Opporre resistenza allo Spirito è qualcosa di estrema attualità: non dimentichiamo che per quest’opposizione non c’è perdono, ma solo la conversione, cioè prendere coscienza di questo errore e convertirci dalle nostre resistenze alla verità, perché solo la verità salva. Mosè, Gesù, Stefano, fino ad oggi: sempre la caratteristica del profeta è quella di essere osteggiato. Il cuore e gli orecchi in circoncisi, nelle parole di Stefano, riconducono gli ebrei ad una condizione di paganesimo, cioè di rifiuto di ascoltare la Parola e di adorarazione delle proprie idee come idoli. E invece lo Spirito Santo dovrebbe abitare nei nostri cuori, quello Spirito che è amore di Dio, fiamma inestinguibile del Dio-amore che vive nel mondo e lo permea. È troppo: il sinedrio urna a gran voce tutti, si tappano le orecchie e avviene la lapidazione. Nel suo spirare Stefano dice: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Noi siamo nel Figlio ed entriamo nella vita della Trinità nel Figlio. Echeggiando le ultime parole di Gesù, Stefano perdona gli uccisori. La spirale del male solo così può essere fermata e vinta, dal perdono, da un amore più forte del male stesso. Stefano entra nella gloria, in Cristo, ma vi entra come il seme che sotto terra porta frutto. Ad assistere a quella scena c’è il giovane Saulo: gli Atti degli Apostoli nascono così dalla morte di Stefano, cioè da quel giovane Saulo che era lì presente a reggere i mantelli.
Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele II, 6, 14
Ma ecco che mentre parlo dei due condottieri dell’esercito celeste, mi viene in mente anche il martire Stefano, il quale, messo alla prova per il nome del suo Creatore e trascinato in mezzo ai persecutori, rimase imperterrito, insegnò con sicurezza, e con l’ardore della verità rimproverò duramente i suoi persecutori, dicendo: Voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo. E poiché quelli corsero a prendere le pietre per lapidarlo, in ginocchio pregò per i suoi persecutori, dicendo: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Che forza è mai questa che suscita tanto zelo da rimproverare con sicurezza la perfidia di coloro che
lo tenevano nelle mani, e amarli talmente da pregare nel momento della morte anche per quelli che lo mettevano a morte! S’infervorò talmente di zelo, come se fosse totalmente privo di mansuetudine, e fu così mansueto da continuare ad amarli come se non fosse acceso contro di essi. Pensiamo frattanto dove giace la nostra coscienza colpevole. Chi di noi infatti, anche se riceve soltanto una parola ingiuriosa dal prossimo, non ricambia immediatamente l’ingiuria, il cuore non si agita dal profondo, non erompe nell’odio, non dimentica il precetto dell’amore? Ma Stefano riuscì a far questo per grazia di Dio onnipotente, perché, elevandosi in altezza, era la porta. Noi miserabili non riusciamo ad imitarlo con la nostra forza, perché come il pavimento ci troviamo molto al di sotto.