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N di NIETZSCHE

by | 31 Gen 2024 | Filosofia

«Ognuno di noi, uomini più degli altri segnati da questa epoca, porta con sé quel l’irritabilità da spirito libero che ci rende sensibili e restii, in una misura sconosciuta in tutte le epoche passate, alla minima pressione di una qualche autorità esterna» Così Friedrich Nietzsche (Rocken 1844 – Weimar 1900)  scriveva nell’ultimo tentativo di prefazione a Umano troppo Umano composto tra il 1876 e il 1879: prefazione che rimarrà materiale per Giorgio Colli e Mazzino Montinari nel loro lavoro di recupero e ricostruzione dell’ingente mole di scrittura del pensatore tedesco mai data alle stampe dallo stesso; testo – Umano troppo umano – che segna il passaggio da una fase ancora circoscritta del pensiero di Nietzsche, dove la dipendenza e l’originalità non si distinguono chiaramente, alla fase della risoluzione di una disarmonia interiore, della conquista di autonomia, che d’un tratto gli fa trovare un linguaggio indipendente e porta il suo pensiero ad un’ampiezza vitale; testo che, forse, esprime il frutto più maturo di quella sana immoralità Nietzschiana che Thomas Mann ha definito come moralità che sopprime se stessa per ascetico amore della verità; testo dedicato a quegli spiriti liberi che Nietzsche non aveva trovato nel suo tempo ma di cui nemmeno dubitò la venuta nel futuro, tanto da profetizzare con forza: «che la nostra Europa avrà tra i suoi figli di domani e di posdomani questi lieti e intrepidi compagni, corporei e tangibili, […] anzi li vedo già venire, lentamente, lentamente; e farò qualcosa per affrettarne la venuta, se descriverò in anticipo tra quali vicende li vedo nascere e per quali vie li vedo venire?».

Provando a scandagliare il pensiero di uno dei filosofi più “inattuali” per la contemporaneità globalizzata in cui viviamo, emerge come Nietzsche sia un pensatore “inattuale” perché, nella decisione di raccogliere quattro scritti sotto il nome di Considerazioni inattuali appunto, annunciava la sua ribellione contro il proprio secolo: l’inattualità fa riferimento sia all’insoddisfazione che egli esprimeva nei confronti del suo diciannovesimo secolo, sia alla necessità di un percorso a ritroso per una ricerca vitale e critica di una età dell’oro da ricreare (il che è diverso dall’imitare pedissequamente) nel presente, il quale è invece impantanato in una cieca fiducia positivistica nel progresso scientifico della collettività; ma l’inattualità fa riferimento anche al carattere dirompente e inaccettabile, per la società del tempo, delle tesi esposte. Non a caso in molti scritti l’autore allude al suo essere un profeta, vituperato perché venuto troppo presto ad annunciare verità scomode per l’umanità. Solo a partire da questi pochi elementi, ci si può proiettare senza difficoltà nel nostro presente per individuare in esso una terribile continuità, il che dovrebbe portarci ad ammettere con sincerità che Friedrich Nietzsche rimane per noi un pensatore inattuale, fastidiosamente ascoltabile, e per questo da pochi preso sul serio.

“Attuale”, per Nietzsche, era una rinuncia a priori ad un sano bisogno umano di problematizzare la realtà delle cose; problematizzazione che pertanto non poteva esser considerata, dall’epoca positivistica di Nietzsche e ancor più dalla nostra, se non come un inattuale atteggiamento malsano e ininfluente perché presto o tardi travolto dal “buio fiume del divenire”, dall’infondata e perpetuata promessa di un progresso dell’umanità fondato sulla scienza e sulla forza. Non stupisce allora che la considerazione espressa per il proprio tempo da Nietzsche sia costantemente negativa, declinata in termini di malattia, decadenza, notte e morte. In una lettera del 1876 Nietzsche si definisce «un uomo che nulla desidera quanto di perdere ogni giorno una qualche fede tradizionale e sicura e che in questo affrancarsi sempre più grande dello spirito cerca e trova la sua felicità. Forse io voglio essere uno spirito libero, perfino ancor più libero di quello che io posso!». Tale ricerca non è indolore o priva di passione. Impegnerà invece esistenzialmente il ricercatore dell’uomo di superiore valore, fino ad un punto in cui la vita di questi arriverà a coincidere con la testimonianza stessa a cui si vuole dar voce, come nel linguaggio la vita viene ad essere il significante e la testimonianza il significato. Così egli scriveva nell’ Anticristo:«Il problema che io pongo qui […] riguarda […] quale tipo umano deve essere allevato, deve essere voluto, in quanto tipo di superiore valore, più degno di vivere, più certo dell’avvenire. Questo tipo di superiore valore è già esistito abbastanza spesso: come caso fortunato, però, come eccezione; mai come qualcosa di voluto. È stato proprio questo invece ad essere particolarmente temuto, esso è stato fino a oggi quasi la cosa terribile, – e prendendo le mosse dal timore è stato voluto, allevato, raggiunto il tipo opposto: l’animale domestico, l’animale d’armento, l’uomo come animale malato».

A proposito di tali spiriti liberi, di uomini di superiore valore bramati da Nietzsche, viene da ricordare che Thomas Mann fu il caro amico di uno di questi tra i grandi del ventesimo secolo, uno di quelli che possono generare in noi «la sensazione che quella quasi nevrotica irritabilità da spirito libero, quella riottosità agli ultimi residui di costrizione e di moderazione imposta, è collegata ad un’anima consolidata, benevola, e quasi lieta, di fronte alla quale nessuno ha bisogno di temere perfidie o sortite improvvise»:Hermann Hesse. Questi nasce a Calw, sulle sponde del fiume Nagold, nella regione tedesca del Wurttemberg, nel 1877 da padre russo e madre indiana figlia di un pastore pietista tedesco e madre svizzero-francese. La vita di Hesse è fortemente influenzata dalla formazione pietistico-internazionale ricevuta nell’ambito familiare, e già nella sua prima opera, il Peter Camenzind, raccontando il vagare del montanaro introverso e sensibile che parte da Nimikon, alla scoperta del vasto mondo, con un programma tanto puntiglioso quanto intrinsecamente vago, “Lernen, schaffen, schauen, wandern”, imparare, operare, vedere, vagare, altro non viene rappresentato se non il tentativo stesso di Hesse-Peter di liberarsi dalla problematicità dell’educazione familiare e dall’involucro asfissiante della provincia sveva. Nel Marzo del 1892, l’allievo Hesse, quindicenne, fugge dal seminario evangelico di Maulbronn che frequentava per desiderio del padre di trasformarlo in un parroco. Insofferente del “tu devi fare questo, tu non devi fare quest’altro”, prende la fuga, gira un’intera giornata per i boschi, mentre alla ricerca si era mossa persino la polizia, pernotta all’aperto con dieci gradi sotto zero rischiando di morire, e dopo le cure opportune rientra in famiglia a Calw.

Un paio d’anni è apprendista in una fabbrica di orologi da campanile poi passa a Tubinga a fare il commesso in una libreria. In quegli anni, dai sedici ai venti, si affeziona alla lettura :

«Per mia fortuna e delizia, c’era nella casa paterna la grandiosa biblioteca del nonno, una sala piena di vecchi libri, che tra l’altro conteneva tutta la letteratura e la filosofia tedesca del secolo XVIII. Tra i sedici e i vent’anni non solo consumai una grande quantità di carta per i miei primi tentativi poetici, ma lessi anche metà della letteratura universale».Si dedica allora particolarmente alla storia dell’arte e allo studio delle lingue e della filosofia, e legge Gellert e Goethe, e il suo diletto Jean Paul, senza trascurare i grandi testi religiosi dell’Occidente e dell’Oriente. Alla letteratura chiede però costantemente la vita decifrata in una lingua poetica in cui rinvenirsi più vero, non semplicemente altra letteratura. Per Hesse leggere è un altro modo di vivere, una fame di esistenza con cui manifesta il suo desiderio di libertà e felicità in maniera riflessa. La peculiarità che lo porterà presto al successo sul panorama letterario mondiale sarà la sua “lirica travestita”, come lo sono state I’ Iperione (1797-1799) di Holderlin o Così parlò Zarathustra (1883,1885) di Nietzsche.

Nell’ultimo capolavoro di Hesse, Il giuoco delle perle di vetro  (vincitore nel 1946 del premio nobel non ritirato dal suo autore durante la premiazione a Stoccolma), Knecht, che in tedesco significa “servo”, è il protagonista di una vicenda che si svolge in una realtà spirituale della quale sono partecipi gli uomini che nello spirito superano se stessi e costituiscono l’unità del mondo. Grazie al soggiorno presso i benedettini di Mariafels e al colloquio con Jacobus (figura copiata da Jacobus Jacob Burckhardt), egli scopre cosa sia la storia: «la storia è ciò che non va trattato come la matematica del matematico, né con leggi e formule, senza attenzione alla realtà, senza bene e male; la storia è quella che richiede la facoltà ordinatrice dello spirito, ma esige altresì che si rispettino la realtà e l’unicità degli avvenimenti, poiché studiare storia significa abbandonarsi al caos, ma nello stesso tempo conservare la fede nell’ordine e nel senno». Nietzsche ricordava che “scopo dell’umanità può trovarsi solo nei suoi più alti esemplari”, e Knecht nel suo percorso è diventato uno di essi perché è diventato se stesso, ma proprio per questo ora è deciso a servire quella vita, quella forza plastica che l’ha portato e continua a portarlo sempre più dentro, e ora la stessa forza riesce a riconoscerla anche nel suo allievo che non appartiene alla casta degli alti esemplari di umanità. Sempre è stato nell’uomo il «bisogno di una certa conoscenza del passato – ora come storia monumentale, ora antiquaria, ora critica – ma non è il bisogno di una schiera di pensatori puri che stiano solo a guardare la vita […], bensì si tratta sempre di un bisogno che ha come scopo la vita e quindi rimane anche sotto la suprema guida e signoria di questo scopo». Dunque non che Knecht debba servire l’allievo, cosa che diversamente la scuola storicistica tedesca si è arrogata il diritto di fare per sé e per i giovani ma solo come «bisogno di individui avidi di sapere, che siano appagati solo dal sapere, e per i quali l’accrescimento della conoscenza sia il fine stesso». Nietzsche ed Hesse rifiutarono di farsi chiamare maestri, piuttosto hanno scelto o sono stati scelti per un servizio che odorava di testimonianza. Knecht e il suo allievo devono servire la vita, ma questo servizio sarà perfetto se eseguito in quella piena serenità che “non è frivolezza né compiacimento di sé, ma suprema conoscenza e supremo amore, affermazione di ogni realtà e veglia sull’orlo di tutti gli abissi”. Un tale servire è il segreto del bello e la vera e propria sostanza di ogni arte. In Hesse emerge una ricerca artistica desiderosa di recuperare da ogni sguardo astratto una verità incarnata e concretamente riscontrabile nell’esperienza individuale, perciò anche l’arte diventa una strada capace di portare alla comprensione di sé. Scrive ancora Hesse:«Noi siamo capaci di penetrare per alcuni istanti nel mistero dell’unità, ma la nostra capacità d’amore si fonda sulla nostra capacità di valutare soggettivamente: senza questa non c’è arte né amore».

In questa prospettiva si colloca il “pensiero magico” hessiano: ovvero l’accettazione della contraddizione, o meglio il vivere nella contraddizione, a cui fa eco il nietzschiano sentire antistorico (come arte di poter dimenticare il passato e di «rinchiudersi in un orizzonte limitato”) e sovrastorico (quale potere dell’arte e della religione di distogliere lo sguardo dal divenire, dalle immutabili antitesi, e “volgerlo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno”). Ma è alla luce di questo impegno nella contraddizione che, tornando al romanzo di Hesse, al termine della vicenda viene a collocarsi un insospettabile meschino incidente che troncherà la vita dell’uomo che si era appena accinto alla nuova impresa di servitore, un incidente in cui Knecht perde la vita. Che significato hanno questa e molte altre morti? Che significato può assumere ciò che per antonomasia rappresenta il contraddittorio rispetto alla vita? In ogni dramma la fine del protagonista è un’espiazione di colpe sue o altrui. Essa ristabilisce un equilibrio che era stato turbato: colpevole è dunque Knecht, come Socrate, come Cristo, come Nietzsche, vittima volontaria, colui qui tollit peccata mundi. Eppure, proprio morendo, lungi dal voler trasmettere al lettore moderno lo scontato messaggio che la morte è l’ingiusto ma necessario esito della vita con cui fare i conti, Knecht esprime invece una volontà di continuazione della vita lasciando una grande e grave responsabilità tanto a Tito, il suo allievo, quanto al lettore: Tito infatti, dopo aver visto il suo maestro scomparire nel laghetto alpino, reputandosi colpevole di quella fine, è preso da un sacro brivido e dal presentimento “che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita e preteso da lui cose molto più grandi di quanto fino ad allora egli avesse preteso da sé” . Nella prefazione di Umano troppo umano forse Nietzsche riesce meglio a descrivere tale sentimento : «la giovane anima viene d’un colpo scossa, strappata, divelta; essa stessa non capisce quel che accade. Un impulso e un’urgenza sorgono in essa e se ne impossessano imperiosamente; si svegliano in essa una volontà e un desiderio di andare avanti, dove che sia, ad ogni costo». È l’eterno ritorno della responsabilità di ciascuno, l’eterna chiamata a rinascita nell’umano, è la fucina del destino, è l’intramontabile e insopprimibile forza plastica che permette l’incombere sul soggetto “del punto interrogativo di una curiosità sana ma sempre più pericolosa” , che insorge “sullo sfondo della sua agitazione, del suo vagabondaggio – poiché è sempre in cammino, inquieto e senza meta come in un deserto”. Si vuole ora consegnare al lettore in chiusura, ironicamente per concludere ciò che non si può concludere, Un epilogo“, appunto l’epilogo in versi aggiunto dallo stesso Nietzsche alla seconda edizione di Umano troppo umano risalente al 1886; in questa poesia intendiamo vedere il consolidamento di una fratellanza con lo scrittore e viandante Hermann Hesse, nato un giorno dopo la decisione presa e comunicata epistolarmente da Nietzsche a Malwida von Meysenburg di tornare a Basilea e riprendersi quella che definì “la mia attività!”, ossia l’insegnamento; una fratellanza che si salda nella consapevolezza della bellezza della vita insieme alla certezza della morte.

 

Fra amici

Un epilogo

 

E’ bello insieme tacere

Più bello insieme ridere, –

Sotto il serio manto celeste

Appoggiati al musco e al faggio

Ridere con gli amici amabilmente fortemente

E mostrarsi bianchi denti.

Se ho fatto bene, vogliamo tacere;

Se ho fatto male — vogliamo ridere

E far sempre peggio,

Fare peggio, rider peggio,

Finché scenderemo nella fossa.

Amici! Sì! Deve accadere?

Amen! E arrivederci!

Niente scuse! Niente perdoni!

Concedete, voi lieti, liberi di cuore

A questo libro irragionevole

Orecchio e cuore e asilo!

Credetemi, amici, non maledizione

Mi divenne il mio sragionare!

Ciò che io trovo, ciò che io cerco

Fu mai scritto in qualche libro?

Onorate in me la corporazione dei matti!

Imparate da questo libro per matti, Come la ragione viene – «alla ragione»!

Dunque, amici, deve accadere? –

Amen! E arrivederci!

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