Quante volte litigando con qualcuno ci capita di urlare alla fine “non voglio mai più vedere la tua faccia”? Per Emmanuel Lévinas, filosofo francese di origini ebraico-lituane, il volto è una parte del corpo molto particolare; innanzitutto perché è l’unica parte del corpo, insieme alle mani, che non copriamo, sempre esposto, come ciò che ci fa riconoscere e che appartiene ad un’ identità ben precisa. Impossibile pensare ad un volto senza pensare contemporaneamente ad una persona specifica. Quando ci troviamo di fronte ad un volto accade qualcosa di misterioso e potente. Incontrando l’amico con cui abbiamo litigato e a cui abbiamo promesso “mai più uno sguardo e una parola tra noi”, anche se quegli resta in silenzio, se incrociassimo per un attimo il suo sguardo sarebbe come sentirci urlare in faccia “proprio tu che sei mio amico vuoi farmi del male?”. Ciò significherebbe che ogni volto ci riguarda, nel senso che ci interessa ma anche che guarda noi. Quando incontriamo un povero che chiede l’elemosina, per non sentirci interpellati dalla sua richiesta cerchiamo di volgere lo sguardo altrove, perché altrimenti il suo volto ci riguarderebbe, sentiamo che quella persona ha una relazione con noi. Il suo volto ci costringe a pensare a lui anche se non lo conosciamo. Il volto dell’altro scassina la nostra convinzione che esistiamo solo noi, e allo stesso tempo ci ricorda che esistiamo sempre e solo dentro lo sguardo dell’altro, grazie allo sguardo dell’altro, o meglio, di fronte al suo volto (per non farne solo una questione di sguardo, tema caro a Sartre, e da cui si svilupperà invece una fenomenologia dello sguardo con derive diverse, diciamo, leggermente più critiche del rapporto tra soggetti). Proviamo a fare questo esperimento:c’è una differenza nel comunicare qualcosa a qualcuno tramite chat e comunicarglielo vis a vis? Prova a descriverle e annota tutto ciò che ti viene in mente dell’altro che non vedi nel momento in cui comunichi con lui tramite telefono, e annota ciò che invece avviene in te, quali emozioni provi e a quali reazioni fisiche fai caso, per il semplice fatto di trovarti di fronte a lui.
Emmanuel Levinas nasce in Lituania nel 1905 e muore nel 1995 a Clichy in Francia. In lui si assiste nel ‘900 alla congiunzione tra metafisica ed etica. Da riconoscere come uno tra i massimi esponenti del pensiero ebraico, e padre della nuova etica della responsabilità, di cui coniò il termine e che di certo presenta aspetti e rimandi espliciti ai testi sacri ebraici, al Talmud e alla Torah. Le note dell’ “etica del volto” di Levinas risentono però di un ebraismo non troppo spiritualista, non troppo legato a fervori religiosi, quanto piuttosto ad un ebraismo intellettuale, capace di far pensare. Levinas si considera francese, nonostante la sua madrelingua fosse il russo, perché in Francia trovò asilo dopo lo scoppio della Rivoluzione Russa nel 1917 e le persecuzioni naziste in Germania. Venne catturato dai nazisti ma, per il fatto che avesse l’uniforme francese, godette delle statuto di prigioniero di guerra quando venne liberato nel 1945 a guerra finita, mentre era riuscito a mettere in salvo moglie e figlia nascondendole in un convento. Si era laureato in Filosofia nel 1927, conobbe Husserl ed Heidegger con i quali chiuse i contatti quando Martin Heidegger venne sospettato di Nazismo. Levinas è un pensatore molto legato al pensiero ebraico, agli orrori della shoah, e che individuò la radice del pensiero hitleriano proprio all’inizio dell’ascesa del nazismo, che non sarebbe una svolta accidentale nella storia politica del popolo tedesco, ma la possibilità del male concreta nella nostra cultura, un attentato all’umanità dell’uomo. L’hitlerismo sarebbe il rovesciamento radicale della concezione dello spirito umano. Mentre l’Occidente parlava di razionalità e diritto, Hitler faceva appello al corpo, all’identità biologica, alla razza, richiamandosi a Nietzsche per sottolineare come l’uomo fosse ciò che “appartiene al sangue e al suolo”, circoscrivendo la persona sotto un cielo chiuso, in un destino già segnato. Per Levinas il successo di Hitler si è giocato anche nella risposta data da questi circa il bisogno fondamentale di una società di sentirsi comunità vivente, non razionale, ma fisica, accesa, di passione o risentimento, ma viva. Il fatto è che, quando una comunità si accende di risentimento per sentirsi viva, testimonia che era al soldo di una razionalità mortificante, la razionalità di quello che Lévinas chiama l’Ontologia della potenza, il discorso sull’essere portato avanti dal pensiero Occidentale e ripreso con forza negli anni Venti da Heidegger. L’essere decantato dall’Ontologia di quegli anni si riferisce a tutto ciò che viene prima dell’individuo, che è più importante del singolo. Accostabile per certi versi allo Spirito Assoluto di Hegel o alla Razionalità Illuminista, il pensiero ontologico è lo schema di fondo di una visione del mondo dove il singolo non conta, ma conta la specie, la razza, che incarna lo spirito del tempo, il momento dell’essere, e si eleva sopra ogni criterio umano, al di là del bene e e del male. In questo delirio di onnipotenza di un popolo, l’altro viene negato, inghiottito e distrutto, perché tutto deve diventare Io, tutto deve essere assorbito dalla macchia ontologica dell’essere puro e perfetto incarnato dal sentimento hitleriano. L’ontologia heideggeriana sposata da Hitler dunque si proponeva di neutralizzare in fondo ogni ente, ogni spicchio di diversità, ogni tu, perché diverso dall’Io, perché diverso dall’essere, sotto la cui egidia deve ricadere ubbidiente e indistinto.
L’orrore nazista sarà il pensiero che immaierà tutti i suoi pensieri, come evento che non si può tacere. Il centro dei suoi studi fu il tema dell’alterità, il tema dell’altro, che mi si presenta come un volto carico di significato, il cui sguardo, lo sguardo del volto dell’altro, mi induce a mettermi in discussione, ad abolire ogni forma di brutalità ed egoismo. Le sue opere principali sono Totalità e infinito, (1961), saggio sull’alterità, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974). In Totalità e infinito Levinas ci parla del fatto che tutta la filosofia occidentale si è sempre concentrata sul tema dell’essere, contrariamente a quanto diceva Heidegger, che dell’essere si elevò a profeta dopo un periodo per lui troppo lungo in cui l’ontologia era caduta nell’oblio di sé. Per Lévinas bisogna andare al di là dell’essere, perché tutta questa concentrazione sull’essere del pensiero storico-filosofico-scientifico occidentale serviva a garantire la libertà dell’io, giustificando e riportando tutto all’uomo come un suo possesso. Ogni cosa era ridotta all’io e a un suo possesso. Anche la rivoluzione copernicana di Kant non è uscita da questo schema perché è sempre un soggetto che si impone a qualcosa che gli si presenta. L’uomo figlio di questa filosofia è diventato un dominatore, ogni forma d’alterità e ogni forma di trascendenza soffocate, l’uomo ancora rinchiuso sotto una asfittica cura di sé, sotto il principio dell’individualismo. Da qui si sono prodotte le attitudini belligeranti e totalitarie. Per questo per Levinas non occorre partire dall’essere ma andare al di là, partire invece dalla priorità dell’altro. La fenomenologia che Levinas ha studiato a fondo gli ha insegnato che non possiamo accedere all’altro come fenomeno, nel senso che l’altro si manifesta, si fenomenizza, ma io non posso avere accesso all’altro con la pretesa di poter cogliere tutto dell’altro che mi appare davanti. C’è sempre un eccedenza e una esorbitanza nell’altro, una infinitudine che non diventa mai una mera datità, cioè qualcosa che completamente si dà e che io posso cogliere completamente. Il volto dell’altro non è riassumibile, sussumibile, sintetizzabile. Su quel volto e di quel volto io non posso mai dire una parola definitiva.L’ altro è inafferrabile. Tuttavia, superando il solco esistenzialista, secondo Levinas, l’esperienza del nulla è qualcosa che noi non facciamo mai, perché mai entriamo in contatto con il nulla ontologico e mai viviamo di fatto questa esperienza, perché anche quando scompaiono tutte le cose, tutte le persone, quantomeno resta un buio, un silenzio, e l’essere ritorna sempre. Non è mai possibile fare esperienza del nulla in quanto tale, al massimo si può fare esperienza del «il y a», l’essere che c’è, che resta, ritornante, provocando smarrimento, soffocamento con la su ingombranza, terrore.Se Heidegger avesse indagato più a fondo, secondo Levinas, avrebbe capito che oltre l’angoscia del nulla c’è l’orrore per l’essere anonimo, l’orrore per l’essere che invade e che c’è, senza dire niente, senza darsi; l’essere che c’è, ma del quale io non colgo l’alterità profonda. Per il filosofo la morte segna la fine di tutti i poteri dell’io, concordando con Heidegger che l’uomo è un essere per la morte perché la morte si presenta come l’impossibilità di tutte le possibilità, ma a differenza di Heidegger, di fronte alla morte, per Lévinas io non mi posso salvare da solo. Davanti alla morte l’uomo inizia ad assumere un’esistenza autentica perché nella morte, come secondo Heidegger, l’uomo assume la propria finitudine e ci si apre davanti un sentiero di salvezza. Di una salvezza non del soggetto da solo, in una sorta di autosoteria, ma si tratta di una salvezza che mi viene dall’altro, dove io posso farmi salvare dall’altro.Davanti all’esperienza di quel che c’è di opprimente e terrificante, davanti all’esperienza di quell’essere che è pura presenza, che mi fa paura, che preclude ogni alterità dove tutto è ingabbiato in una violenza ontologica, nell’imperialismo del medesimo, in quella totalità in cui nessuno emerge, in cui è soppressa ogni individualità, in cui non c’è spazio per nessuna trascendenza, solo l’alterità, l’Altro, l’altro, mi può salvare. Il pericoloso ateismo che Levinas critica si preoccupa di garantire l’affermazione e la libertà dell’io fino a diventare puro arbitrio individuale, volto a dover soddisfare soltanto i propri bisogni; un io chiuso nell’immanenza che blocca qualsiasi trascendenza, intendendo con trascendenza non solo il totalmente altro quale potrebbe essere inteso Dio, ma qualsiasi altro simmetrico a me come altro uomo. I frutti di un’ontologia tale sono stati individualismo e lotta di sopraffazione: una filosofia della potenza, che ha alimentato la negazione del prossimo, l’ascesa del totalitarismo e le persecuzioni, la guerra, l’intolleranza, l’atomica . Per Lévinas , in sintesi, bisogna rompere con la totalità e con qualsiasi pensiero totalizzante che in realtà obbedisce solo ai capricci dell’io. Questa è la critica alla filosofia occidentale, affinché vengano aperte di nuovo le porte all’infinito, all’escatologia. Come si può fare questo? come si può far spazio all’infinito che irrompe? L’infinito mi si presenta, non lo catturo io, ma rompe la totalità perché in questa totalità ammassante e massificante che rende tutto medesimo, emerge un’alterità che è un individualità, emerge un Tu che mi si presenta come un volto. La filosofia del volto, il volto dell’altro, la cui individualità è irriducibile, che non si lascia totalizzare e dominare ma che è sempre traccia dell’infinito. Nell’incontro con l’altro, anche con l’altro uomo, si fa strada l’infinito. Il volto dell’altro è il luogo dove l’infinito dell’altro si presenzializza, sfuggendo ad ogni presa, possesso, uso. Non c’è niente di utilizzabile nell’altro, e il volto ha una sua resistenza etica. Nel faccia a faccia, l’incontenibile misteriosità del volto si fa strada,. Il tu inafferrabile, nel momento in cui ci viene incontro, nel momento in cui il volto si volta verso noi e ci guarda, in realtà ci grida, ci lancia un urlo : “tu non ucciderai”. Non mi uccidere. Il primo momento dell’apparizione del volto è l’adspectus, cioè quando l’altro si volta, quando il volto dell’altro si gira verso me gridando non mi uccidere, non ingabbiarmi, non cercare di capirmi e comprendermi del tutto, perché c’è molto altro oltre me. Ogni volto è luogo dove un infinito Tu si presenta. L’apparizione del volto dell’altro introduce un’etica nuova, perché quando l’altro mi si volta e mi dice “non uccidermi”, il secondo momento, dopo l’adspectus, immediatamente dopo, è il momento del respectus, momento in cui il volto dell’altro mi chiede di essere riguardato con rispetto. Molto spesso in questo momento capita che il soggetto guardato e guardante si vergogni, perché dinanzi allo sguardo altrui si mette in discussione l’uomo, rendendosi conto che c’è un altro davanti a lui, avvertendo così la propria esistenza come colpevole nel momento in cui cerchiamo di quartare l’altro. Per Sartre era inevitabile non quartare l’altro. Per Levinass invece, non spezzare l’altro, non renderlo frammentato, è davvero possibile. Quando il volto si volta verso di me, il soggetto deve rispettarlo e fare un passo indietro per far spazio alla bontà e alla responsabilità che rispetta l’altro, che gli fa spazio, che gli si dedica. Un volto che guarda il volto è il luogo della responsabilità che l’altro mi chiede. Quindi l’uomo è tale se si rende conto di essere uomo grazie ad un altro che lo sveglia nell’essere e lo sveglia nell’etica. L’ uomo è assolutamente per l’altro. Adspectus, respectus e infine cumspectus, Ovvero sto al cospetto dell’altro. Questo è il terzo momento dell’incontro tra due soggettività.Il primum ontologico non è l’essere, il discorso sull’essere, ma la relazione con l’altro, perché è la relazione che mi esserifica, che mi dice chi sono, che mi rende un uomo, che mi rende responsabile dell’altro; altro che mi chiede di non essere ucciso (adspectus), di essere riguardato con rispetto (respectus) e di stare con lui, al suo cospetto (conspectus).
© photo Bracha L. Ettinger https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Emmanuel_Levinas.jpg#/media/File:Emmanuel_Levinas.jpg