Quinta domenica di Quaresima
Gesù è salito a Gerusalemme per la festa della Pasqua. Aveva già detto che avrebbe offerto la sua vita e che altre pecore non appartenenti all’ovile si sarebbero unite al suo gregge. L’apparizione dei gentili che vogliono vederlo e credere in lui indica che è tempo per Gesù di offrire la sua vita. L’ora è giunta, l’ora della passione e della morte. Non c’è niente di astratto: Gesù è profondamente coinvolto e sconvolto dalla prospettiva di ciò che lo attende, ma il centro del suo essere aderisce incondizionatamente alla volontà del Padre.
“Chi ama la propria vita, la perde, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Sembra strano: ogni uomo normale vuole salvare la propria vita, è l’istinto fondamentale di ogni vivente! Eppure il vangelo sembra contraddire questa esperienza. Ma se Gesù deve portare la vita in modo definitivo, allora deve vincere il fondamentale nemico della vita, che è la morte. I Padri della Chiesa hanno paragonato spesso Gesù ad un medico che è riuscito a curare l’ultima ed inguaribile malattia, la morte. Il suo metodo principale è l’applicazione di un noto principio stabilito dagli antichi: le cose simili si curano con quelle simili, per cui le malattie vengono curate con i veleni che le hanno causate. Ecco svelata la contraddizione: secondo questo principio la morte non potrà essere curata se non con la morte stessa. Gesù ha riempito la sua vita terrestre con l’amore ed è morto come tutti gli altri mortali, ma il suo amore era divino e si è mostrato più forte della morte. Gesù non ci ha redenti solo per il fatto di essere morto, ma perché la sua morte è stata causata da un amore divino e immortale. Per entrare nella vita eterna non è sufficiente morire, bisogna morire con Cristo. E chi ama in modo cristiano muore in questo modo ogni giorno: ogni giorno perde un pezzetto della propria vita e ogni giorno la salva per sé e per gli altri. Questo è il grande mistero che indicava un monaco, noto come Pseudo-Macario: la vita eterna non è una vita che riceveremo solo dopo la morte. Le due vite già coesistono: dal giorno in cui siamo nati perdiamo a poco poco la nostra vita terrena, ma allo stesso tempo acquistiamo la vita eterna ogni giorno, con ogni opera buona fatta in Cristo. Questa vita eterna è collocata nel nostro cuore con la forza vitale di un seme: dopo l’inverno delle nostra morte terrena, arriverà la primavera divina, illuminata dai raggi di quel sole eterno che è il Cristo.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XXIV, 32-34
Il nostro Redentore, avvicinandosi alla morte e immedesimandosi con le sue membra, entrato in agonia, cominciò a pregare più intensamente. Che cosa chiedeva per sé nella sua agonia lui che sulla terra poteva disporre dei beni celesti? Avvicinandosi alla morte, manifestò in sé la lotta del nostro spirito, di noi che siamo invasi dal terrore e dalla paura, quando, attraverso la morte, ci avviciniamo al giudizio eterno. È comprensibile che l’anima di ciascuno sia terrorizzata quando, dopo questo breve tempo, trova ciò che in eterno non può cambiare […]
Le anime dei giusti spesso vengono purificate da ogni lieve macchia mediante il timore stesso della morte e ricevono le gioie dell’eterna ricompensa fin dal momento in cui escono dal corpo. Così di solito essi ancor prima d’esser spogliati della carne si rallegrano di una certa visione dell’eterna ricompensa, e mentre pagano il debito all’uomo vecchio, pregustano la gioia del dono. Perciò Giobbe con ragione dice: “Vedrà la sua faccia nel giubilo” (Gb 33,26).
L’anima del giusto vede la faccia di Dio in giubilo, perché tanto gusta d’intima gioia quanto a malapena ne potrà contenere anche una volta assunta nella gloria. Vivendo dunque lassù vede la luce, perché fissa l’occhio dello spirito nei raggi del sole divino. Vivendo lassù vede la luce, perché vinta ormai ogni variazione e ombra di cambiamento, aderisce alla verità eterna e, aderendo a colui che vede, giunge alla somiglianza immutabile e, mentre lo contempla, assume in sé l’immutabile bellezza del suo Creatore. Se infatti per colpa sua è caduta nella mutabilità, vivendo di Dio da lui viene trasformata nella condizione immutabile di colui che è immutabile. Ora Eliù, che dapprima ha riferito l’amara tristezza e poi la gioiosa consolazione dell’uomo afflitto e liberato, soggiunge: “Ecco, tutto questo fa Dio tre volte con l’uomo” (Gb 33,29), cioè con la conversione, con la prova e con la morte; perché con queste tre cose prima lo sottopone a dure prove che lo affliggono e poi lo consola con l’assicurazione di grandi gioie.