Sabato della quarta settimana di Quaresima
L’evangelista ci mostra dal vivo un interessante episodio: la gente si accalca e discute attorno a quell’uomo di cui tutti parlano, chiedendosi se non sia forse il Messia. Non è stato certo facile per i contemporanei di Cristo credere in lui. Di fronte all’agitazione generale i detentori del potere rispondono con il sarcasmo e il disprezzo: non cercano un vero confronto, la loro è solo una reazione scomposta dettata dalla paura di perdere il prestigio. Quando un dialogo degenera in conflitto, come comportarsi in questi casi? L’esempio ci viene da Nicodemo. Solo la sua voce si leva con coraggio a mostrare che la legge stessa non accusa nessuno, prima di averlo ascoltato. Nicodemo esige un giudizio imparziale, ma per questo atteggiamento viene riprovato dei compagni e alla fine, conclude l’evangelista, ciascuno tornò a casa sua. La maniera più semplice e radicale di risolvere un conflitto sembra essere quella di distruggere l’avversario, escludendolo dalla società o arrivando addirittura a farlo fuori. I cristiani sono stati e sono tuttora esposti a questi pericoli: l’odio verso di loro non può essere spiegato solo con motivi politici, nazionali e psicologici; fa parte della guerra che fin dall’inizio il male muove contro Dio. Ma Dio ci è accanto, fino al sacrificio supremo. Chi è chiamato alla missione del martirio, riceve da Dio una forza e una grazia speciali per accettare liberamente con gioia il sacrificio, nella speranza della vittoria di Cristo e della propria.
Gregorio Magno, Dialoghi 2, 8
In tutte le zone circostanti alla dimora di San Benedetto si era andato sviluppando un grande fervore religioso verso il Signore Gesù Cristo, nostro Dio; e molti abbandonavano la vita del secolo per curvare la superbia del cuore sotto il giogo leggero del Redentore. Purtroppo però c’è stato sempre il tristo costume dei cattivi di urtarsi della virtù che altri hanno e che essi non si curano minimamente di avere. Il prete di una chiesa vicina, di nome Fiorenzo – antenato di Fiorenzo suddiacono nostro – istigato dallo spirito maligno, cominciò a bruciare d’invidia per i progressi virtuosi dell’uomo di Dio, a spargere dubbi sulla sua santità e a distogliere quanti poteva dall’andarlo a trovare. Si accorse però che non solo non poteva impedirgli i progressi, ma che anzi la fama della sua santità si diffondeva sempre di più e che molti proprio per questa reputazione di santità sceglievano la via della perfezione. Per questo si rodeva sempre più per l’invidia e diventava ognor più cattivo, anche perché avrebbe voluto anche lui le lodi per una condotta lodevole, senza però vivere una vita lodevole. Reso ormai cieco da quella tenebrosa invidia, progettò infine un’orrenda decisione: inviò al servo dell’onnipotente Signore un pane avvelenato, presentandolo come pane benedetto e segno di amicizia. L’uomo di Dio lo accettò con vivi ringraziamenti, ma non gli rimase nascosta la pestifera insidia che il pane celava. All’ora della refezione veniva abitualmente dalla vicina selva un corvo e beccava poi il pane dalle mani di lui. Venne anche quel giorno; e l’uomo di Dio gli gettò innanzi il pane che aveva ricevuto in dono dal sacerdote e gli comandò: “In nome del Signore Gesù Cristo, prendi questo pane e buttalo in un luogo dove nessun uomo lo possa trovare”. Il corvo, spalancato il becco e aperte le ali prese a svolazzare intorno a quel pane, e crocidando pareva volesse dire che era pronto ad eseguire il comando, ma una forza glielo impediva. Il servo di Dio dovette ripetutamente rinnovare il comando: “Prendilo, su, prendilo senza paura e vallo a gettare dove non possa trovarsi mai più”. Dopo aver ancora a lungo esitato, finalmente l’afferrò col becco, lo sollevò e volò via. Tornò circa tre ore dopo, senza più il pane, e allora come sempre prese il suo cibo dalla mano dell’uomo di Dio. Il venerabile Padre comprese da questa vicenda quanto l’animo del sacerdote si accanisse contro la sua vita e ne provò un immenso dolore, non tanto per sé quanto per il povero sventurato.