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Terremoto di Amatrice, l’omelia di mons. Vito Piccinonna

da | 24 Ago 2024 | Pastorale dell'emergenza

Amatrice rimane, dopo otto anni, il simbolo della distruzione del tragico terremoto del 24 agosto 2016, che ha provocato 299 vittime e migliaia di sfollati. Il sisma ha attivato altre faglie vicine, tanto che oggi, per i quattro terremoti occorsi tra il 24 agosto 2016 al 18 gennaio 2017, si parla di sequenza sismica Amatrice-Norcia-Visso. Una sequenza che ha formato un cratere di distruzioni di 8mila km2 tra Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria e 138 comuni coinvolti. Il comune di Amatrice, come ogni anno, ha proclamato per il 24 agosto il lutto cittadino e la giornata del silenzio. Le chiese storiche non sono ancora agibili e la celebrazione eucaristica in memoria delle vittime del sisma di sabato 24 delle 10.30 è stata presieduta dal vescovo di Rieti mons. Vito Piccinonna presso la Cavea dell’Auditorium della Laga. Questa notte l’Auditorium è stato anche il punto di ritrovo della commossa veglia e fiaccolata verso il centro storico, con la lettura dei nomi delle vittime e i rintocchi del campanone alle 03.36.

Riportiamo l’omelia del vescovo di Rieti, mons. Vito Piccinonna:

“Carissimi, vi confesso che, soprattutto in giornate come questa, avverto personalmente la necessità del silenzio. È una sensazione che mi attraversa spesso quando incontro la gente di questi luoghi, mentre i volti di alcuni familiari che hanno perso una o più persone care, diventano familiari anche a me, mentre ascolto e tocco con mano la fatica di chi non vede ancora quanto promesso e sperato. È un silenzio di rispetto, anzitutto per chi non c’è più, ma pure per chi resta, per chi continua a vivere qui o ha il desiderio di ritornarci. eppure questa celebrazione eucaristica è per tutti quanti noi, ogni anno, uno spazio, un tempo che cogliamo come possibilità di affidamento dei nostri cari, anche per chi continua a vivere e a sperare nonostante la morte e la disperazione. sentiamo la necessità, il dovere di ricordare i nostri cari, di non dimenticarli. E per chi crede, di affidarli al Signore, sapendoli già nel suo abbraccio paterno e materno. 

A distanza di otto anni non sono cancellate le domande, anzi: Perché, Signore?, è la domanda che pure chi crede di credere, pone alla vita, a Dio, talvolta anche senza più parole e senza più lacrime. E non perché il dolore sia finito. Oggi qui è il tempo della preghiera, che può accompagnare il tempo di ciascuno e di tutti; ma non si tratta di una preghiera facile, a buon mercato. Mai è facile la vera preghiera, specie se fa eco alle parole di Gesù nel Getsemani e poi sulla croce: Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato?. Le ha dette Gesù, lui, il Figlio dell’Uomo, il Dio che viene sorprendentemente dalla Galilea, da una borgata di essa, da Nazareth. Lui ha abitato la nostra umanità, condividendola in tutto, fin dove nessun uomo vorrebbe arrivare, nella sofferenza e nella morte. Ma quale preghiera siamo venuti a vivere qui oggi? Non è certo una panacea, ma è quella che emerge dal Vangelo poc’anzi ascoltato, dentro una promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli, anche quando tutto sembrava enigmatico e contraddittorio. A Bartolomeo, Gesù dice: Vedrete il cielo aperto. Questa è la promessa di Gesù. Sì, cari amici, la preghiera che osiamo far nostra è quella che aspira a tenere il cielo aperto, perché Dio non è muto e sordo dinanzi alle nostre biografie, seppur stritolate dal dolore della morte e dalla fatica nel veder nascere e rinascere qualcosa di nuovo, che venga finalmente a prendere il posto delle macerie interiori ed esteriori. Dalla preghiera, che osa vedere i cieli aperti e tenerli aperti, che vuole una speranza più forte della morte; dalla preghiera, che è capace di sperare contro ogni speranza; da una preghiera pasquale sgorga la responsabilità. Sì, la responsabilità di coltivare questa speranza, la determinazione di tenerla desta, nel modo più maturo di cui tutti quanti possiamo essere capaci; di non far del male a questa speranza, di rispettarla, perché la speranza è sempre piccola. Rispettarla, concretizzando quelle risposte che non possono essere più rimandate. I cieli aperti allora implicano per noi tutti la responsabilità di mettercela tutta, ciascuno per la sua parte, di voler far bene il bene, di imparare a convergere tutti per un obiettivo comune, di non risparmiarci; anche, di non far prevalere istinti e logiche che fanno solo male alla collettività e aiutano a disperare, specie per chi abita qui ogni giorno dell’anno e non solo il 24 agosto. 

Cari fratelli e sorelle, manteniamo fermo l’intento di essere e di fare comunità, una comunità che non permette alla disperazione di prevalere, nonostante tutto. Ce lo chiedono i nostri cari, come pure questi nostri territori e quanti li abitano, desiderosi di vedere il cielo finalmente aperto e non più chiuso”.

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