Periodico di informazione religiosa

Venerdì della III settimana di Pasqua. Il Tempo di Pasqua con Gregorio Magno

by | 19 Apr 2024 | Monasteria

Venerdì della III settimana di Pasqua

La conversione di Saulo-Paolo è il frutto del martirio di Stefano: e della successiva persecuzione, vista come disseminazione dei cristiani. Raccogliendo i mantelli, raccoglie la vera eredità di Stefano. D’ora in poi Paolo, il persecutore, diventerà l’apostolo per eccellenza, il maestro dell’agape, icona del suo Signore, chiamato a rivelare il mistero di Dio nascosto dall’eternità. La narrazione della sua vocazione, dell’intervento di Dio su di lui, serve ad aprire per tutti e per sempre le porte del Regno, come esplicita volontà di Dio. Paolo in questa folgorazione ha visto davvero tutta la bellezza di Dio e di Cristo in un istante. Il testo della sua “conversione” è ripetuto tre volte negli Atti e nelle lettere Paolo vi ritorna spesso: è la sua memoria fondamentale, il luogo genetico della comprensione del cristianesimo nella sua universalità per tutti. Paolo era il primo, il più zelante nel far fuori i cristiani, ma lo faceva per amore di Dio, non per cattiveria. Era un giudeo vissuto all’estero, quindi un ellenista, ma molto conservatore, perché chi è lontano dalla sua terra in un mondo “pagano” diventa più rigido nel difendere la propria identità. E il primo grande apostolo sarà quello che voleva far fuori la Chiesa, o meglio, “quelli che sono della «Via»”. Così sono chiamati i primi cristiani: il cristianesimo prima di tutto non è dottrina, morale, legge, ma è un cammino, uno stile di vita. E nel suo cammino verso Damasco, una folgore lo avvolge di luce e cade a terra: è la trasfigurazione di Paolo. Qui paolo capisce che Gesù è presente in tutti gli uomini che credono in Lui, e ora è presente anche in lui che voleva ucciderli tutti, per chiamarlo alla vita. Paolo scopre che quel Gesù non è soltanto vivo, ma ha il volto di coloro che lui sta andando a catturare per portare a Gerusalemme. È questo il grande bagliore che lo folgora, il bagliore dell’identificazione di Gesù con la sua Chiesa, con quel povero, quel nudo, quel carcerato, quel malato. Nelle sue lettere, la cosa che più colpisce è la continua ripetizione dell’affermazione «in Cristo», «in Cristo», come un ritornello. Una folgorazione talmente forte da non consentire a Paolo di stare in piedi e di vedere.

Paolo sarà come Gesù: attraverso il gesto di Anania, gli cadono le squame dei suoi perfezionismi e delle sue convinzioni, mentre gli si aprono gli occhi sulla fraternità; riceve lo Spirito Santo, che è poi l’amore dei fratelli, è l’amore che ricevi e che trasmetti ad altri. Sara ciò che Paolo farà per tutta la vita, in tutto il mondo, in tutte le situazioni, in tutte le modalità: anche lui adesso sa amare come Gesù, che ha dato la sua vita per noi. È questa la risurrezione.

Gregorio Magno, Commento al I Libro dei Re 6, 46

Saul ancora con la sua bocca confessa: “Ho peccato”. Ma mostra il tipo della sua confessione, soggiungendo: “Ma adesso onorami davanti agli anziani del mio popolo e davanti a Israele”. È chiaro il tipo di pentimento di chi ancora desidera essere onorato. Poiché, se sinceramente si pentisse del suo peccato, desidererebbe essere disonorato piuttosto che onorato. Che significa dunque l’espressione: “Ho peccato?”. Alla confessione del peccato non deve seguire l’onore o la gloria, ma l’umiltà e il disprezzo. Che serve infatti confessare le colpe, se alla voce della confessione non segue l’afflizione della penitenza? Tre cose si devono notare in un sincero penitente: la conversione dell’anima, la confessione della bocca e la punizione del peccato. A chi non si converte col cuore, che giova confessare i peccati? Infatti il peccato che si ama, non si cancella affatto confessandolo. Sì, ci sono alcuni che manifestano i peccati confessandoli, ma non convertendosi non li detestano.

Costoro, confessandoli, non hanno nulla: perché, ciò che a parole mandano fuori, con l’amore l’introducono. Perciò la Scrittura, a quelli che vogliono confessare per avere la salvezza, suggerisce: “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza”. Che significa credere con il cuore per ottenere la giustizia, se non indirizzare la volontà alla fede, che opera per mezzo dell’amore? Quando dunque uno indirizza l’intenzione del cuore verso la giustizia per mezzo dell’amore, con l’inizio della buona volontà ottiene il frutto di un’autentica conversione. Certamente costui fa già la sua professione per avere la salvezza: perché con la parola elimina maggiormente dalla ferita quello che con la conversione ha compunto. Ora la terza fase, cioè la punizione, è necessaria come medicina; affinché l’ascesso della colpa, che si compunge con la conversione, si purifica con la confessione, si guarisce con la medicina dell’afflizione. Ora, chi non crede con il cuore per ottenere la giustizia, non fa alcuna confessione per avere la salvezza: perché in certo modo mostra le foglie di un albero cattivo, che affonda le sue lunghe radici nel cuore. Ora, il segno della vera confessione non sta nella confessione della bocca, ma nell’afflizione della penitenza. Vediamo che un peccatore è davvero convertito, allorché si sforza di cancellare con adeguato rigore penitenziale ciò che confessa con la bocca. Perciò anche Giovanni Battista, rimproverando i Giudei non sinceramente convertiti che accorrevano a lui, diceva: Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione. La penitenza si deve dunque riconoscere nel frutto, non nelle foglie e nei rami. La buona volontà è come un albero. Ora, che altro sono le parole di confessione, se non foglie? Non dobbiamo dunque guardare le foglie per se stesse, ma per il frutto: appunto per questo si accoglie ogni confessione dei peccati, purché segua il frutto della penitenza. Perciò il Signore maledisse l’albero, bello per le foglie, ma sterile quanto al frutto: perché non accetta l’ornamento della confessione senza il frutto dell’afflizione. 

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