La bravura di un teologo non consiste solo nel dire cose affidabili su Dio, né tanto meno nell’andare alla ricerca di novità che possano attirare l’attenzione in un mondo di nozioni teologiche fatto di colonne granitiche che sembrano adornare il grande museo della storia dell’uomo. La bravura di un teologo è nel riuscire a mostrare costantemente la novità che c’è in Dio e la ricaduta luminosa che essa ha su tutta la vita dell’uomo. Giovani Cesare Pagazzi è un teologo così. Attualmente Segretario del Dicastero per la Cultura e l’educazione, Pagazzi ci ha regalato un intenso saggio dal titolo Chi ci separerà? Senso di abbandono e consolazione (San Paolo 2023).
Il cuore di questo saggio nasce da un’evidenza che facciamo fatica a rimettere al centro delle nostre riflessioni: il cuore oscuro dell’infelicità contemporanea è la ferita dell’abbandono che l’attraversa, il senso di vuoto che nasce quando ciò che consideriamo significativo e affidabile si eclissa, scompare, lascia la mano. La percezione che abbiamo del vuoto e dell’abbandono è fondamentalmente negativa. Pagazzi mostra come nella pedagogia di Dio l’abbandono è un nome dell’Amore. Infatti Dio dà un’appartenenza e allo stesso tempo separa da sé. Dona vita e libera da un malato legame fusionale con Lui. È infatti proprio nell’arretrare che chi ama provoca chi sta amando a fare un passo in avanti, a emergere, a tirare fuori ciò che anche a lui stesso è sconosciuto. Ma questo dinamismo di amore è vissuto da noi sempre con molto dolore.
Non a caso Pagazzi mostra come la vera radice dei nostri peccati risiede proprio nel vano tentativo di riempire i nostri vuoti o nell’esprimere il disagio di essi: «Chi si sente abbandonato – scrive – gioca alternativamente su due tavoli: l’attacco aggressivo e l’autolesionismo; è omicida e suicida» (61). Si tratta allora di entrare in un formidabile sguardo nuovo sulle cose. Ogni storia biblica, così come mostra Pagazzi in alcuni personaggi significativi (Noemi e Rut), altro non è che immagine di quella pedagogia divina che tenta costantemente di liberare Israele dalla tentazione degli idoli. Infatti è proprio dell’idolo riempire il vuoto, tappare il buco, sanare artificialmente questa separazione.
Il Dio vero è tale perché rende possibile invece questa separazione, mette in atto la logica della madre. Infatti, scrive Pagazzi, «L’allattamento non satura, ma prepara pian piano alla separazione tipica dello svezzamento. Si assiste ad un secondo paradosso della consolazione divina: nel momento preciso della sua efficacia, mentre cerca di convincere un cuore abbandonato, avvia una procedura di separazione» (88). Ecco perché il vero risvolto dell’abbandono è la consolazione. Lungi però pensare che consolare sia riempire, esso invece è aiutare l’altro ad accettare la propria mancanza. Infatti solo se accettiamo la mancanza che ci abita allora smetteremo di viverla con disperazione e proprio per questo essa smetterà di essere causa di peccato nella nostra vita: «La conversione richiesta dal Signore è l’impegno a lasciar guarire il cuore, non dando ragione al senso di abbandono, strada aperta a manie e malinconie, cause di cattiverie di ogni specie. Ma per guarire il cuore, Dio non si comporta come un genitore ansioso che il bimbo riesce a trattenere al proprio fianco, quale garante di continua, totale pienezza. Infatti, similmente a una mamma sicura del proprio amore, Dio resta nelle vicinanze; non satura il senso di mancanza, semmai lo accende e consente di abitarlo» (104).
Tra letteratura, filosofia, psicanalisi, poesia, Giovanni Cesare Pagazzi intesse un saggio teologico e antropologico che può essere davvero l’antidoto al buio contemporaneo, infatti la nostra epoca è stata definita l’epoca delle passioni tristi, ma se potessimo in qualche modo guarire dalla tristezza ne rimarrebbe solo la parte più bella: la passione. Le pagine di questo libro ne sono davvero una possibilità efficace.