Il fenomeno della “perdita del centro” è qualcosa di irreversibile? L’uomo contemporaneo riuscirà a riabilitare sé stesso recuperando la sua essenza più autentica? Davvero, come sostiene Dostoevskij, la Bellezza salverà il mondo? Forse il “centro” non è perso per sempre. Suggestioni a partire dalla storia dell’arte.
L’umanità sta subendo diverse e profonde crisi che, sempre più, si stanno palesando in tutta la loro complessità e gravosità. Probabilmente, ormai, nulla tornerà ad essere come prima. Ma la nostra società non è una macchina da riparare quanto, piuttosto, un organismo che ha bisogno di rigenerarsi (cfr. Giaccardi, Magatti, Nella fine è l’inizio, Il Mulino 2020).
A ben vedere, l’instabilità che tutti stiamo sperimentando è innanzitutto esistenziale e, un certo sguardo “filosofico” sull’arte, può contribuire a comprendere quanto sta accadendo gettando una qualche forma di luce sulla significatività della Storia.
Interessante, a tal proposito, è prendere in esame la tesi esposta nel saggio Verlust der Mitte (Perdita del centro) dallo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayer, il quale pone l’accento sulla crisi che attanaglia l’uomo moderno, indicando i fenomeni artistici come sintomi di tale impasse.
L’Autore propone un percorso critico all’interno della storia dell’arte che documenta la “perdita del centro” come perdita di Dio prima, e dell’uomo poi, fino ad arrivare alla perdita di percezione della realtà in tutti i campi e che – possiamo aggiungere a distanza di ben tre lustri dalla pubblicazione dell’Opera – è particolarmente evidente oggi nel rapporto con il virtuale legato all’avvento del digitale.
Ultimamente, atmosfere da sogno e da narcosi sono i sentimenti dominanti: l’Astrattismo come negazione del visibile, il Surrealismo come deformazione onirica del visibile, fino alla Pop-art come assenza di valore. Una rilettura della storia dell’arte più recente che si manifesta, assolvendo a uno dei suoi ruoli più rilevanti, come simbolo di un’epoca e di una certa visione del mondo e dell’uomo.
Prima, la concezione di un ordine del mondo stabilito dalla volontà divina animava i Maestri d’Opera medievali a erigere le loro costruzioni sacre, rinnovando in qualche modo il rito della creazione, plasmando i loro edifici secondo le leggi divine con cui il Grande Architetto aveva dato ordine al creato. Simili concezioni appaiono custodite in diverse civiltà umane, e non è un caso che chiese romaniche e gotiche, sinagoghe, moschee, templi indù, risultino realizzati con metodi che sembrano racchiudere nei loro schemi architettonici i misteri del cosmo.
Adesso, una sorta di nichilismo gaio senza angoscia ha preso il predominio nell’uomo contemporaneo e si rinviene anche nelle produzioni artistiche. Il profitto e la notorietà sembrano essere gli unici obiettivi ad orientare anche l’arte. Una profanazione questa del vero significato dell’Arte – quella autentica – che nasce essenzialmente dall’interrelazione dell’uomo con il suo stupore, il suo rispetto e la sua meraviglia verso lo svolgersi misterioso e ineffabile della vita, con i suoi cicli, le sue misure, la sua armonia. E invece, a ben guardare, lo scenario attuale designa l’insensatezza di un’arte modernissima la cui unica regola è, sovente, la dissacrazione e il nonsense.
Con la rinuncia ai punti di riferimento fondamentali che per secoli avevano sorretto la cultura e in generale ogni aspetto della società, l’arte assume spesso i connotati di un’azione sovversiva, che sfiora in alcuni casi il demoniaco; essa è letteralmente “cacodemonica”, ossia derivante da un’ispirazione maligna, diabolica, discendente.
Si prenda ad esempio un’opera come Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini che il surrealista Max Ernst elaborò fra il 1929 e il 1934, ritagliando illustrazioni di feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento assemblate poi in collage a cui aggiungeva didascalie di sua mano, destinate a essere – commenta Giuseppe Montesano in una delle edizioni italiane del testo – «segnali devianti e pervertimenti del senso comune». Qui il mostruoso, il macabro, il bizzarro, sono combinati assieme in quello che può essere definito un incubo ad occhi aperti.
L’arte è bella finché ha radice in Dio, nell’Assoluto, traendone da esso vigore e slancio. Quando si distacca dall’Assoluto essa si snatura, decade, non è più autentica creazione ma mera creatività, non di rado animata da contenuti tra i più oscuri e caotici della psiche.
Abbiamo estremo bisogno di tornare a una considerazione alta della Bellezza. Solo riscoprendo il valore di una certa “kalokagathìa” l’uomo potrà recuperare il suo “centro”, riabilitando di conseguenza sé stesso. È fondamentale prendere coscienza della cultura secolarizzata in cui siamo immersi, di un uomo che ha perso il proprio volto umano, ma che – e l’arte ne è testimonianza – non può rinunciare in alcun modo a desiderare di incontrare una risposta alla sua domanda di buono, vero, giusto e bello, al grido di significato che, volente o nolente, lo costituisce.
A partire dall’esperienza semplicissima dell’incontro con la Bellezza che suscita stupore, si può aprire la strada della ricerca di Dio e disporre il cuore e la mente all’incontro col Cristo, Bellezza della Santità Incarnata offerta da Dio agli uomini per la loro Salvezza. Come nuovi Agostino del nostro tempo, cercatori insaziabili d’amore, di verità e di bellezza, siamo chiamati ad elevarci dalla bellezza sensibile alla Bellezza eterna e a scoprire con fervore il Dio Santo Artefice di ogni bellezza (cfr. Via Pulchritudinis, documento del 2006 dell’allora Pontificio Consiglio per la Cultura della Santa Sede).
Immagine: Vasilij Kandinskij, Alcuni cerchi (particolare) – Olio su tela, 140,3 × 140,7 cm, 1926 – Solomon R. Guggenheim Museum, New York (USA)