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“LA RABBIA” DI PIER PAOLO PASOLINI

da | 7 Lug 2023 | Cultura

Ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario del film storico di Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi “La Rabbia”, opera sperimentale di montaggio uscita nelle sale per la prima volta nel 1963, che ha senz’altro ancora molto da dire, stimolando una riflessione e presa di coscienza critiche spesso assenti nell’uomo di oggi. La pellicola è divisa in due parti, ognuna delle quali scritta e diretta da quelli che, non a torto, venivano ritenuti tra i maggiori intellettuali del tempo, benché lontanissimi in termini di tendenze politiche e ideologiche (eppure considerati “eretici” dai propri rispettivi schieramenti).

Nella prima parte, all’inizio, è Pasolini stesso ad esplicitare il motivo che lo ha spinto a creare l’opera, ovvero la domanda precisa su quale fosse l’origine della scontentezza, della paura e dei conflitti che agitavano la società di allora; prendere, dunque, in considerazione l’angoscia e la paura della guerra e della morte e, di conseguenza, l’esigenza di criticare i totalitarismi, politici e mediatici.

Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra? Per rispondere a questa domanda ho scritto questo film senza seguire un filo cronologico e forse neanche logico. Ma soltanto le mie ragioni politiche e il mio sentimento poetico”.

Il film rappresenta un atto di indignazione contro l’irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica. La rabbia è quella del poeta che si fa interpellare dall’inquietudine derivante dalla constatazione della normalità e distrazione nelle quali si è adagiata la società contemporanea che, ormai, priva di una coscienza critica, rimane schiava dell’omologazione, del conformismo e del qualunquismo. Il senso di angoscia che caratterizza l’uomo contemporaneo è rivelatore di una profonda crisi esistenziale.

Pasolini si interroga sul perché di tanti lutti nel mondo, causati dalla follia dell’uomo e da dittature guerrafondaie. In tutti gli episodi del film, tratti da rotocalchi e cronistorie dell’epoca, spesso accompagnati da poesie civili e politiche di Pasolini (interpretate peraltro dalle voci di Guttuso e Bassani), si interpreta simbolicamente la paura della guerra come la paura della morte nel mondo presente, in quel mondo storico degli anni ’60 che è già caratterizzato da uno “sviluppo” industriale e urbano che non coincide con le speranze di “progresso” dello stesso Pasolini. Paura della guerra quindi come paura della morte e, pertanto, paura della vita: una vita non più “protetta” da rituali e meccanismi sociali “conservativi” che furono il perno del mondo contadino, un mondo che scompare e che lascia l’uomo preda dell’alienazione industriale e del boom economico alimentato da false speranze e dalle menzogne dei nuovi strumenti di morte come la televisione.

Con spirito che oggi tutti definiscono profetico, Pasolini vede nella televisione uno strumento negativo ed alienante. Prodotto, anch’essa, dell’industrializzazione e della trasformazione borghese della società italiana. Con questo “strumento della menzogna” è proprio il proletariato ed il mondo contadino a perdere la sua identità storica, per venire così inghiottito nella comunicazione di massa che spiega la Realtà con l’Irrealtà, che omologa qualsiasi messaggio politico o culturale senza possibilità di contrapporsi e di rivendicare le ragioni del mondo passato, della memoria, della Tradizione. La TV è il maggiore codice estetico del potere borghese, perfettamente rispondente agli ideali della piccola borghesia italiana, unica a non avere alcuna patente “ideale”, a differenza delle grandi borghesie europee che furono capaci di grandi rivoluzioni.

Stavolta il totalitarismo preso di mira da Pasolini è il Totalitarismo dell’immagine, capace di manipolare la comunicazione e di “alleggerirla” a tal punto da negare qualsiasi riflessione critica e autonoma. La televisione dei primi anni ’60 è per Pasolini il Sacerdote che celebra il Boom economico, un Grande Fratello (Orwell, 1984) che omologa, aliena e assoggetta la società al Potere della comunicazione. I rotocalchi dell’epoca presentano agli italiani la società del benessere quale società della felicità e del progresso; bastian contrario, nel film “La Rabbia” Pasolini vi contrappone le povertà del mondo, le distruzioni dell’atomica, le rivoluzioni in Corea e Cuba che alimentano speranze poi anch’esse tradite, gli omicidi-suicidi provocati dalla nuova civiltà dell’immagine (Marylin Monroe), la stessa morte dello spirito e dell’innocenza provocata dai media controllati dal “nuovo fascismo”, quello appunto piccolo-borghese e televisivo.

Qui possiamo trovare un parallelo letterario, ma non solo tra Pasolini ed Orwell: nel Mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) non sarà il Grande Fratello a togliere l’autonomia, la cultura e la memoria storica. Qui la gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva i libri vietati, la privazione dell’informazione, la civiltà di schiavi; Huxley invece, nel mondo nuovo, vede più nessuno desideroso di leggere, troppe informazioni che riducono alla passività, alla solitudine, all’egoismo e la civiltà non di schiavi ma di ignoranti, in balìa di sensazioni e bambinate. Come Huxley anche Pasolini vede, ad esempio, nella distruzione antropologica dell’Italia, l’annientamento dell’identità e della singolarità umana, causata non da ciò che odiamo ma da ciò che apparentemente e superficialmente amiamo: il consumismo.

“Il gran male dell’uomo non consiste né nella povertà né nello sfruttamento, ma nella perdita della singolarità umana sotto l’impero del consumismo”.

Pasolini ritiene che solo una riabilitazione del passato e, in particolare, della civiltà contadina con i suoi valori, possa rappresentare un superamento dell’impasse nella quale viene a trovarsi la società borghese del suo tempo, alienata prima dal potere del totalitarismo politico e ora da quello dell’industrializzazione esasperata fine a sé stessa e del consumismo capitalista. È significativo in questo senso quanto dice lo stesso Pasolini nei suoi Scritti corsari, mettendo in evidenza come il fascismo mussoliniano fu comunque meno distruttivo del fascismo commerciale. Quello, a differenza del consumismo, aveva asservito gli uomini ma senza toccarli nel fondo dell’anima; per questo, è possibile ascrivere il pensiero pasoliniano principalmente come una critica nei confronti della piccola borghesia italiana che incarna i disvalori di una società consacrata al consumo e a una disattenzione patologica che le impedisce di reagire alla schiavitù alla quale è ormai inconsapevolmente soggetta.

“Allora, i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo. […] Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti […]. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima”.

Chissà come giudicherebbe i nostri giorni Pasolini. Forse la sua rabbia continuerebbe a scagliarsi contro la distrazione dell’uomo e la sua conseguente incapacità di rendersi conto delle forme di totalitarismo alle quali è asservito dall’ideologia e dal dominio del consumo e dell’immagine. La forza di Pasolini, d’altro canto, sta nell’essere stato un profeta.

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