C’è un verbo che ci spaventa più di tutti: fallire.
È la parola proibita della contemporaneità, l’ombra che ci insegue mentre proviamo a restare in piedi in un mondo che ci vuole sempre vincenti.
Eppure, se ci fermiamo a pensarci, non esiste alcun progresso umano — biologico, sociale o tecnologico — che non sia nato da un errore, da un inciampo, da un fallimento.
Viviamo in un tempo che confonde l’efficienza con il valore personale. Il linguaggio della performance, dell’ottimizzazione, dell’eccellenza è entrato in ogni ambito della vita: dal lavoro ai rapporti affettivi, dall’alimentazione alla salute mentale. Bisogna funzionare, sempre e comunque.
Ma cosa succede quando smettiamo di funzionare?
La nostra società è diventata intollerante all’errore.
Non tolleriamo l’imperfezione nemmeno nei processi naturali: correggiamo, filtriamo, cancelliamo. E lo facciamo anche con noi stessi, nascondendo le crepe, perché mostrarle significherebbe ammettere la fragilità. Ma proprio lì, in quella crepa, si annida la possibilità più autentica di evoluzione.
Normalizzare il fallimento non è un invito alla resa, ma un atto di coraggio. Significa riconoscere che la crescita non è una linea ascendente, ma un terreno accidentato, disseminato di deviazioni. Significa smettere di vivere nella paura di sbagliare e cominciare a vivere nella libertà di provare.
Un tempo eravamo abituati alla lentezza. L’errore aveva spazio, l’attesa aveva un senso. Il fallimento non era ancora sinonimo di fallito. Oggi, invece, la velocità ci ha resi impazienti e giudicanti. Pretendiamo risultati immediati, anche da noi stessi, come se l’umano dovesse rispondere agli stessi ritmi degli algoritmi che lo governano.
Ma l’algoritmo non conosce inciampi. Noi sì. Ed è proprio questo a renderci vivi.
Essere “pronti a fallire” è una forma di igiene mentale.
È un modo per depurarsi dall’ansia della perfezione, per riconnettersi con la realtà, per ritrovare il senso del limite come alleato, non come condanna.
Solo accettando la possibilità di sbagliare possiamo davvero costruire qualcosa di nostro, autentico, imperfetto ma vero.
In fondo, la vita stessa è un esercizio di continua imperfezione: si nasce cadendo, si cresce inciampando, si impara sbagliando.
Non è il successo a definire la nostra salute interiore, ma la capacità di attraversare i fallimenti senza smettere di cercare significato.
Forse dovremmo cominciare a misurare la nostra maturità non in base a ciò che abbiamo raggiunto, ma a come abbiamo imparato a rialzarci.
Essere pronti a fallire significa essere pronti a vivere davvero.




