Fin dai tempi di Platone, si rinviene nella storia della filosofia il tentativo di delineare una società ideale tra utopie e distopie. Nel periodo rinascimentale, in particolare, si assiste al proliferare di opere dove i sogni di perfezione vengono declinati nelle cosiddette utopie ma, nel XX secolo la visione si ribalta, dai sogni si passa agli incubi dell’umanità espressi dalle distopie.
Le basi costitutive della società ideale contemplano, generalmente: la condivisione dei beni, l’abolizione della proprietà privata e del commercio, un tempo limitato per il lavoro e poi, soprattutto, ampi momenti per riposare e riflettere, dedicandosi alla cultura come unica via di accesso alle leve di comando di un sistema fondato sul primato del sapere.
Così appare concepita da Tommaso Moro l’Isola di Utopia nel libro omonimo del 1516. Il Filosofo inglese sogna una struttura politica libertaria, dove ognuno abbia piena facoltà di pensiero e non venga perseguitato per il suo credo religioso. L’Utopia fu il primo tentativo di trasferire in politica e in filosofia l’ansia regolatrice propria del Rinascimento, che pose l’uomo e il suo agire al centro dell’interesse speculativo.
Con il suo pensiero, Moro inaugurò un filone di opere che tentarono di tradurre le visioni utopiche in progetti politici e filosofici improntati su giustizia e tolleranza, spesso però senza riuscire a coniugare questi valori con le libertà personali degli individui.
E’ questo il caso che si rinviene ne La Città del Sole del domenicano Tommaso Campanella. In questa opera pubblicata nel 1623 si delinea una situazione ideale, dove gli eruditi sono posti al vertice della piramide sociale e dove guerre, fame e violenza sono bandite per sempre, anche grazie all’azione di controllo finalizzato a richiamare l’ordine e la disciplina che caratterizza l’intera società pensata dal frate calabrese, disposto a sacrificare al suo modello ogni spazio di libertà.
E tra le molteplici forme dell’isola che non c’è, nel 1627 compare anche La Nuova Atlantide teorizzata da Francesco Bacone. Qui non ci si sofferma più di tanto nel descrivere la struttura sociale che è retta dalla famiglia, quanto nel mettere in evidenza il dominio della ragione e della scienza, e della ricerca promossa e controllata dallo Stato, che piega il sapere all’utilità sociale.
Al di là delle differenze tra i singoli pensatori, tutte le costruzioni utopiche di età rinascimentale e moderna rappresentano il tentativo di esprimere una forma di critica sociale ai regimi del loro tempo, attraverso il ricorso a un ideale che aspiri a raddrizzare le storture della Storia. Tutti, comunque, si ispirarono più o meno esplicitamente all’archetipo filosofico del genere, la Repubblica di Platone, modello di Stato ideale retto dai filosofi e dove ciascun individuo è in grado di trovare la felicità.
La tendenza rinascimentale a immaginare città ideali, costruite secondo le regole razionali della prospettiva e della geometria in un disegno perfetto al cui centro sono collocati l’uomo e il suo intelletto, si trova codificata nel De re aedificatoria, il trattato dell’architetto umanista Leon Battista Alberti, che nel 1452 si propose di definire, per l’appunto, le regole che avrebbero fatto dello spazio urbanistico il naturale palcoscenico del “buon governo”.
In questo modo nacquero città che rispondevano a precisi canoni. Figlie di quest’estetica rinnovata sono, ad esempio, Pienza, voluta da papa Pio II, e Urbino, pensata da Federico da Montefeltro. Questa tendenza trova la sua rappresentazione artistica più simbolica nella grande Città ideale dipinta in diverse versioni nella seconda metà del Quattrocento: il quadro è paradigmatico del clima culturale e artistico proprio delle corti rinascimentali.
Tentativi di delineare la società perfetta si ritrovano anche nel periodo illuminista, anticipando profeticamente gli ideali della Rivoluzione francese, conclusisi poi nell’epopea napoleonica e nella prima metà dell’Ottocento con il sorgere del socialismo.
Il Novecento si aprì con l’illusione dell’utopia comunista, ma conobbe presto le tragiche distorsioni di quell’ideale fattosi realtà. La risposta di artisti e intellettuali a tale disillusione fu affidata al genere della distopia, l’utopia negativa, la rappresentazione di un futuro possibile segnato però da degenerazioni politiche e tecnologiche. Si riscontra pertanto, arrivati questo punto, una inversione di marcia rispetto alla vis immaginativa che aveva caratterizzato il passato.
Tra le profezie apocalittiche sicuramente va menzionato Il mondo nuovo di Aldous Huxley del 1932. L’Autore in questo romanzo presenta un pianeta futuro in cui il controllo dell’individuo e l’eugenetica hanno preso il sopravvento e dove l’uso di droghe “della felicità” può contribuire ad assoggettare le persone al sistema.
Altrettanto drammatiche le fantasie di George Orwell nella Fattoria degli animali e, quasi a precorrere la realtà con tratti inquietanti, in 1984. Due opere che, attraverso le loro visioni distopiche, denunciano la deriva totalitaria tanto del comunismo realizzato quanto del capitalismo avanzato. Così, il “Grande Fratello” di Orwell diventa metafora di un sistema sociale basato sull’omologazione e sul controllo degli individui, realizzato grazie alla forza pervasiva delle tecnologie e alla progressiva ma inesorabile riduzione del lessico.
Infine, Herbert Marcuse, padre ideologico dell’ultima stagione che aspirò al cambiamento, ossia quella che sfociò nei movimenti del Sessantotto, nel denunciare la fine dell’utopia, allo stesso tempo non volle intenderne il fallimento, quanto piuttosto la sua lontana realizzazione. Identificava infatti tale possibilità nello sviluppo della scienza, della tecnologia e dell’automazione, che avrebbero progressivamente sostituito il lavoro fisico con quello intellettuale, generando un’enorme forza produttiva e morale a fronte di un impiego decrescente della “forza lavoro”.
Le visioni prometeiche oggi propugnate dal trans e post umanesimo, forse, da questo punto di vista possono rappresentare la nuova frontiera dell’utopia. Si prefigura in tal modo uno scenario che però, allo stesso tempo, contiene in sé anche i tratti angoscianti della distopia, dove l’umano viene snaturato compiendo un inedito passaggio verso quell’oltre già preconizzato, per certi versi, da Nietzsche. È il caso di rimanere desti e di riflettere bene; l’ultimo sogno rischia di rivelarsi un autentico incubo per l’umanità.