Cocullo, 1° maggio – In un piccolo paese abruzzese incastonato tra le montagne della Valle del Sagittario, ogni anno si consuma un rito antico, struggente e affascinante: la festa di San Domenico abate, protettore dai morsi dei serpenti. Ma dietro la spettacolarità delle bisce che si attorcigliano sulla statua del santo, portata in processione tra le strade affollate, si nasconde un messaggio che il vescovo di Sulmona-Valva, Michele Fusco, ha voluto riportare al centro dell’attenzione con parole di rara intensità spirituale.
«Siamo chiamati a fare cose grandi – ha detto nell’omelia – siamo chiamati a camminare verso l’eternità. Non siamo fatti solo per la terra». Come San Domenico, che venne in Abruzzo nell’XI secolo per portare speranza, guarigione e una parola di fede, anche oggi i cristiani sono chiamati a “non strisciare come serpenti” ma a puntare in alto, verso Dio.
In una liturgia che ha toccato il cuore dei presenti, il vescovo ha intrecciato la dimensione sacra del rito popolare con l’annuncio del Vangelo: «I serpenti oggi saranno messi in alto – ha detto – perché noi possiamo guardare non in basso, ma verso il Signore». Parole che suonano come un invito a riscoprire la propria vocazione profonda, a non accontentarsi delle piccolezze, delle meschinità quotidiane, ma a ritrovare lo sguardo alto della fede e dell’eternità.
Il rito dei serpenti, infatti, non è un semplice folklore, ma un simbolo potente: il male, la paura, l’istinto che striscia, viene domato, portato in alto, redento. Un segno visibile di una realtà invisibile, come tutte le grandi tradizioni popolari che affondano le radici nella fede più autentica.
Un santo taumaturgo tra i serpenti e i miracoli
San Domenico abate, vissuto tra il X e l’XI secolo, fu un monaco benedettino originario dell’Umbria, formatosi a Sora e poi diffusore del monachesimo in Abruzzo. Secondo la tradizione, fu un taumaturgo, capace di guarire i malati, scacciare i demoni e proteggere dalle epidemie e dai morsi degli animali velenosi, in particolare dei serpenti, molto diffusi un tempo nelle zone montane della Marsica. È per questo che, nei secoli, la sua figura si è sovrapposta a culti pagani più antichi, legati alla dea Angizia, divinità serpentina venerata nel territorio marsicano già in epoca italica. A Cocullo, la processione dei serpari – uomini e donne del paese che raccolgono serpenti vivi per adornare la statua del santo – è una fusione millenaria tra cristianesimo e arcaici riti naturalistici, trasformata oggi in uno dei simboli più singolari della devozione popolare italiana.
San Domenico ha lasciato tracce vive nei cuori e nei luoghi: monasteri, eremi, fonti miracolose. Ma soprattutto ha lasciato un’eredità spirituale fatta di silenzio, ascolto e azione. Il vescovo Fusco ha insistito su questo triplice dinamismo della fede: «Ascoltate la parola del Signore, trovate tempo per il silenzio. Ma poi agite. E infine, annunciate la gioia e l’amore che avete ricevuto».
E proprio in questi tempi fragili, l’invito di San Domenico risuona con forza nuova. «Chi crede nel Figlio di Dio ha la vita eterna», ha ricordato il vescovo, citando il Vangelo del giorno. In un’epoca in cui tutto sembra precario, San Domenico ci ricorda che esiste una vita che non finisce, un tempo eterno già cominciato per chi sa credere.
Il messaggio, dunque, non è solo per i fedeli radunati a Cocullo, ma per tutti: «Quando tornerete a casa, cosa direte? Che avete visto i serpenti? O che siete stati toccati da un annuncio di eternità?». È la domanda che chiude l’omelia e apre un cammino.
Cocullo, anche quest’anno, non ha celebrato solo un santo. Ha celebrato l’uomo che ha osato puntare in alto, e che ancora oggi, tra le mani callose dei portatori e lo sguardo stupito dei bambini, insegna che il cielo non è così lontano.
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