Un giovedì santo che dura tutto l’anno: l’abate e la lavanda dei piedi ai monaci, ai poveri e ai pellegrini. Questo il pensiero che, in modo chiaro, san Benedetto delinea nel capitolo 53 della Regola per coloro che chiedono ospitalità in monastero, con speciale riguardo ai poveri. Dopo 1500 anni, il santo di Norcia continua a mostrare una profonda attualità con i suoi richiami all’accoglienza.
Tutti gli ospiti che sopraggiungono siano accolti come Cristo, poiché egli dirà: «Ero forestiero e mi avete ospitato». E a tutti si renda l’onore dovuto, soprattutto ai fratelli nella fede e ai pellegrini. Non appena quindi viene annunziato un ospite, subito gli vadano incontro il superiore e i fratelli con tutte le premure suggerite dalla carità; prima si preghi insieme e poi ci si scambi il segno della pace. Questo bacio di pace appunto non sia mai dato prima di aver pregato insieme, per evitare le illusioni diaboliche. Nel modo stesso di salutare si dimostri la più grande umiltà verso tutti gli ospiti che arrivano o che partono: col capo chino o con tutto il corpo prostrato a terra si adori in essi Cristo, perché è lui che viene accolto. Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro. Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità. Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite, mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.
L’ospitalità è uno dei tratti caratterizzanti la spiritualità benedettina. In quel “tutti” iniziale Benedetto, che incarna tutta la signorilità dell’aristocrazia romana e la delicatezza della carità cristiana, fa capire che non bisogna fare differenza di persone. Se il precedente capitolo aveva trattato della preghiera dei fratelli – come opera di Dio comune e orazione personale – nel capitolo 53 i monaci escono dall’oratorio, lasciano la preghiera liturgica per passare ad un’altra forma di preghiera: l’incontro con Cristo presente nell’ospite. Per quanto povero e infelice egli sia, è proprio Lui che incontrano! Nella tradizione monastica l’ospite, nella persona del povero e del pellegrino, è veramente sacramento di Cristo: allora non stupisce che l’adorazione di Cristo nell’oratorio sia, per Benedetto, inseparabile dall’adorazione di Cristo nell’uomo che viene ospitato: “col capo chino o con tutto il corpo prostrato a terra si adori in essi Cristo, perché è lui che viene accolto”. Ciò che avviene sull’altare, in chiesa, rende presente il mistero della grande e amorevole ospitalità di Dio verso di noi. L’eucarestia è il vertice dell’ospitalità divina. Così l’abate e i monaci sono chiamati a vivere in questa disponibilità e invitare altri a partecipare di questa divina ospitalità. Eucarestia e ospitalità non possono essere separate.
Benedetto prosegue e non finisce di stupirci. Il capitolo si arricchisce di un altro gesto, quello della lavanda dei piedi:
L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: «Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, dentro il tuo Tempio». Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare.
Mi ha sempre colpito che Benedetto ordini all’abate di versare l’acqua sulle mani degli ospiti che arrivano in monastero e di lavarne i piedi, aiutato dalla comunità. Un gesto di umiltà e servizio, a imitazione di Gesù che, presiedendo la comunità, ha lavato i piedi ai suoi discepoli il Giovedì Santo. Questo è il grande onore: l’abate e i fratelli prendono parte insieme alla benedizione di lavare i piedi di Cristo. Senza dubbio Benedetto dovette rimanere impressionato dall’esempio di San Martino di Tours che – secondo il racconto Sulpicio Severo – riceveva con grande onore gli ospiti alla sua tavola, versando loro dell’acqua sulle mani e lavando loro i piedi.
Ma c’è di più. Il versetto del Sal48,10: “Abbiamo ricevuto la tua misericordia, Signore, dentro il tuo tempio” appare ancora più paradossale. Sono i monaci che hanno mostrato misericordia nell’accogliere il povero e il forestiero. Eppure Benedetto capovolge del tutto il modo naturale di vedere le cose: nell’accogliere il povero e il forestiero, sono i monaci ad aver ricevuto. E infatti ricevono misericordia: accolgono Colui che è diventato la misericordia di Dio in persona, cioè il Cristo. E in Lui, ricevono la misericordia di Dio.
Nella tradizione monastica si è iniziata a praticare la lavanda, ancor prima che nelle chiese, anche nella liturgia del Giovedì Santo; un gesto che rivela e racconta come i fratelli vivano l’amore. Già in epoca carolingia Benedetto di Aniane ne è testimone:
in Quaresima, come negli altri periodi, si lavino i piedi reciprocamente e cantino le antifone che si confanno a questo compito. Nel rito del giovedì santo, l’abate lavi e baci i piedi dei confratelli e infine porga loro di sua mano una bevanda. Il mandato [la consuetudine di lavare i piedi, sia nei confronti dei confratelli, sia nei confronti dei pellegrini] avvenga dopo cena.
Anche la Regularis Concordia, documento monastico del X secolo di area anglosassone, ma annoverante tradizioni provenienti dall’Europa continentale, testimonia che gli abati lavavano i piedi ai monaci prima della Pasqua. Dopo i Vespri del Giovedì Santo, prima del pasto, l’abate lavava e baciava i piedi di tutti i fratelli della comunità monastica. San Bernardo, poi, attesta che a Cluny era usanza lavare i piedi ai poveri nelle feste principali dell’anno liturgico. Un uso antichissimo che si è conservato ai nostri giorni in molti monasteri. Il Giovedì Santo, agendo come vicario di Cristo nella comunità monastica, l’abate lava e bacia i piedi dei monaci che gli sono stati affidati, esprimendo con il silenzio dei gesti il senso del suo mandato: una vita di amore e di servizio che si svuota di sé, versata ed effusa per i fratelli.
Che siano monaci o meno, che siano ospiti, poveri o pellegrini, la nostra immagine di Dio dovrebbe essere completata e corretta da quella della Regola di Benedetto. Pensiamo ai profughi di questi giorni. Pensiamo alle persone che in tempi di crisi stanno lottando per guadagnarsi da vivere. Pensiamo ai malati, che rimangono soli e lasciati nella misera. Pensiamo ai carcerati, che trovano difficoltà nel reinserirsi nella società. Tutte persone che non cercano soltanto un luogo dove pregare, stare in silenzio o ascoltare sante letture, ma anche un aiuto materiale, in un’accoglienza che sia guarigione integrale dei loro mali. Giovanni Crisostomo soleva dire: “Più il fratello è povero, più Cristo viene a lui”. Non quanto più un uomo è pio e devoto, tanto più Cristo gli è vicino: ma Cristo viene nella persona dei più deboli. È un messaggio così antico, ma che forse non ci vede ancora pronti a questa apertura. La sfida che Papa Francesco ha lanciato nella Fratelli tutti, in sintonia con la visione di Benedetto, rimane ancora aperta.
Dom Delatte, abate di Solesmes tra Ottocento e Novecento, sintetizza bene la questione: insegniamo a volte con le nostre parole, a volte con i nostri libri, ma i monaci insegnano soprattutto con la loro vita. E di cosa ha più bisogno il nostro tempo, se non dello spettacolo di uomini che vivono solo di Dio e per Dio, assidui alla lode della sua Bellezza e capaci di accogliere il suo amore? Un amore, ci ricorda Enzo Bianchi, che ci previene, che non dobbiamo guadagnarci, un amore che chiede soltanto di essere accolto e creduto. Perché noi cristiani dobbiamo essere, secondo la volontà di Gesù, nient’altro che quelli che credono all’amore.