Il libro della Regola Pastorale, composto da San Gregorio Magno (590-604), che festeggiamo il 3 settembre, fu il best-seller del Medioevo. Ebbe immediatamente grandissima fortuna: già il vescovo san Leandro di Siviglia lo diffuse in Spagna, mentre l’imperatore Maurizio lo faceva subito tradurre in greco; in Inghilterra fu portato dal monaco Agostino con i primi evangelizzatori e venne tradotto in lingua sassone nel IX sec. In Germania venne diffuso per opera di san Bonifacio nell’ VIII sec. Ma è soprattutto in Francia che la Regola Pastorale riceve i crismi dell’ufficialità in diversi concili, nella parte riguardante la formazione del clero e la preparazione dei vescovi. Anzi, da una lettera dell’arcivescovo Incmaro di Reims, apprendiamo che nel IX secolo era uso per i vescovi prestare giuramento sul libro dei Canoni e sulla Regola Pastorale del santo Gregorio. L’occasione gli fu offerta da un benevolo rimprovero del vescovo di Ravenna Giovanni: al momento della sua elezione, Gregorio aveva tentato di sottrarsi alla responsabilità del pontificato, non volendo abbandonare la sua vita di monaco nel monastero di Sant’Andrea al Celio, forse meditando perfino alla fuga. In risposta al vescovo Giovanni, Gregorio si giustifica in principio dell’opera: “perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo esprimere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto“. Queste stesse parole, però, sono anche un severo monito, e il segno di una accorata preoccupazione verso un costume diffuso, allora come oggi, di ricerca di onore e di potere che, oltre ad avvilire il ministero, recava grave danno spirituale al popolo di Dio.
Gregorio Magno ha fatto della meditazione delle Scritture il centro della sua vita e del suo impegno di pastore. Secondo il principio per cui le Scritture crescono con colui che le legge (divina eloquia cum legente crescunt), anche il pastore cresce e matura simultaneamente all’intero gregge che gli viene affidato. Come infatti la Parola di Dio è sempre dinamica e sovrana, anche lo Spirito Santo, che in essa si nasconde, si prende la libertà di rivelare la realtà misteriosa e nascosta nelle Scritture tanto a colui che regge le anime, quanto all’uno o all’altro membro della stessa comunità, perché ne possa essere arricchito anche lo stesso pastore. Gregorio, servo dei servi di Dio, sa che è lo Spirito ad esercitare il ruolo di docente e dunque può parlare non solo attraverso la mediazione dei pastori, ma anche per bocca dei discenti. Un insegnamento preziosissimo, soprattutto ora che si discute di sinodalità nell’ultima fase del Sinodo. Per Gregorio, educato nel monastero e dalla lettura dei Padri, è chiaro che la comunità ecclesiale è la norma dell’intelligenza della Parola e della sua vitalità. Ogni pastore dei fedeli è debitore alla comunità ecclesiale per l’intelligenza di quella Parola che ha il compito di spiegare. E Gregorio lo sa bene: spesso tante cose delle Sante Scritture che non aveva potuto comprendere da solo, le aveva capite quando si trovava insieme ai fratelli. Ma Gregorio si spinge ancora oltre: lo Spirito, quella natura divina ricevuta da ogni membro con il battesimo, può far sì che i fedeli comprendano anche meglio del loro pastore il senso della parola di Dio. In questo caso il pastore si fa discepolo, a sua volta, dei fedeli più illuminati. La parola di Dio ha una libertà totale ed assoluta di fronte ad ogni istituzionalismo e il pastore d’anime sa che egli è sempre un servo e mai un padrone, anche se legittimamente scelto a presiedere una comunità di fedeli. Scrive Gregorio nei Moralia (30, 27, 81):
“Alcune volte la Parola di verità viene comunicata per i meriti del predicatore e del popolo, altre volte viene sottratta per l’indegnità dell’uno e dell’altro. Nell’incertezza poi o nel dubbio di essere o non essere illuminati dalla verità, una cosa rimane ed è che tutti insieme, dottore e comunità, camminino ben fissi nell’umiltà, perché in questa vita presente tanto più si è compenetrati di verità, quanto più si è convinti di non poter accedere da essi stessi alla intelligenza della Parola. Insomma tutta la comunità e il suo capo normale, il pastore, maestro e dottore, sono ugualmente impegnati nei confronti della verità, con una testimonianza di vita santa che dica anzitutto accettazione e consenso a quanto la Parola della S. Scrittura domanda“.
Questo atteggiamento di comune ascolto della Parola e di mutuo insegnamento, a cui non sfugge lo stesso maestro della comunità, non indebolisce la paternità spirituale di chi è padre per carisma nella comunità; anzi, la convalida nel suo autentico servizio che è sempre e unicamente in rapporto unicamente alla Parola. Il pastore, secondo il grado di docilità allo Spirito, cresce con il suo gregge.
Se la fortuna della Regola Pastorale può essersi affievolita almeno a livello ufficiale, l’opera non è mai venuta meno alla conoscenza e alla formazione privata di maestri e guide spirituali. E questo vale anche per gli ultimi pontefici. San Giovanni XXIII annotava: “Questo piccolo libro… ci tiene compagnia da quasi mezzo secolo e ci procura gioie ineffabili a rileggerlo in tutte le circostanze della vita“. (Discorso alla III sessione del Sinodo Romano, 27 gennaio 1960).
Anche il beato Giovanni Paolo I, nell’omelia tenuta a San Giovanni in Laterano il 23 settembre 1978 in occasione della presa di possesso della Cattedra, diceva che avrebbe voluto imitare il suo predecessore, San Gregorio: “che dedica l’intero libro terzo della sua Regula Pastoralis al tema «qualiter doceat», come cioè il pastore debba insegnare. Per quaranta interi capitoli Gregorio indica in modo concreto varie forme di istruzione secondo le varie circostanze di condizione sociale, età, salute e temperamento morale degli uditori. Poveri e ricchi, allegri e melanconici, superiori e sudditi, dotti e ignoranti, sfacciati e timidi, e via dicendo, in quel libro, ci sono tutti, è come la valle di Giosafat. Al Concilio Vaticano II parve nuovo che venisse chiamato pastorale non più ciò che veniva insegnato ai pastori, ma ciò che i pastori facevano per venire incontro ai bisogni, alle ansie, alle speranze degli uomini. Quel «nuovo» Gregorio l’aveva già attuato parecchi secoli prima, sia nella predicazione sia nel governo della Chiesa“.
San Giovanni Paolo II, nell’omelia tenuta alla parrocchia romana di San Gregorio alla Magliana il 18 febbraio 1979, ricordava come San Gregorio ammonisse il pastore d’anime “a essere vicino a ciascuno con il linguaggio della compassione e della comprensione, ma ammoniva al tempo stesso che, per far questo, egli deve in modo singolare essere capace di elevarsi su tutti gli altri per la preghiera e la contemplazione (II, 5). Nell’intimità del colloquio con Dio e nel contatto rigeneratore con la sua grazia, egli può trovare la luce e la saggezza necessarie per “adattare la sua parola al pubblico che lo ascolta, così che essa possa essere accolta dalla mente di ognuno, senza perdere la forza di riuscire edificante per tutti” (III, prol.)”. Il medesimo pontefice, in occasione del XIV centenario dell’elevazione di Gregorio Magno al pontificato, il 29 giugno 1990 esortava: “A 25 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, che non già per un giudizio riduttivo né superficiale, ma per una precisa scelta operativa in risposta alle istanze dei tempi moderni, è stato definito “pastorale”, e dunque diretto propriamente al servizio del Vangelo della salvezza, sarà sommamente utile e opportuno riprendere in mano questo libro veramente aureo, per trarne insegnamenti tuttora validi e pratiche indicazioni di pastorale esperienza e, direi, i segreti stessi di un’arte che è indispensabile apprendere per poterla poi esercitare“.
Benedetto XVI ha dedicato due catechesi nel maggio e nel giugno del 2008 alla figura di Gregorio Magno. Significativo è anche l’insegnamento racchiuso nella sua prima enciclica, Deus Caritas est, dove sottolinea la necessità del pastore di coltivare la vita contemplativa: “Il pastore buono deve essere radicato nella contemplazione. Soltanto in questo modo, infatti, gli sarà possibile accogliere le necessità degli altri nel suo intimo, cosicché diventino sue: per pietatis viscera in se infirmitatem caeterorum transferat. San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che vien rapito in alto fin nei più grandi misteri di Dio e proprio così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti. Inoltre indica l’esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. Dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur”.
Anche Papa Francesco ha fatto riferimento di recente alla Regola Pastorale nell’omelia pronunciata in occasione del funerale del suo predecessore: “San Gregorio Magno, al termine della Regola pastorale, invitava ed esortava un amico a offrirgli questa compagnia spirituale: «In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato. È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e affida la vita di chi è stato suo pastore“.