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Ignatius Maloyan, dal Genocidio Armeno alla canonizzazione

da | 13 Giu 2025 | Vita ecclesiale

A più di un secolo dalla sua esecuzione per mano delle autorità ottomane, il sangue del vescovo armeno-cattolico Ignatius Maloyan grida ancora giustizia. Papa Leone XIV ne ha annunciato la canonizzazione il 13 giugno a Roma.

Il Papa ha decretato che il Beato Ignazio Choukrallah Maloyan, insieme a Peter To Rot, Vincenza Maria Poloni, Maria del Monte Carmelo Rendiles Martínez, Maria Troncatti, José Gregorio Hernández Cisneros e Bartolo Longo siano iscritti all’Albo dei Santi domenica 19 ottobre 2025

Non bastò la sua lealtà alle autorità ottomane né il suo zelo per il bene comune a salvarlo da una condanna senza appello. Era il giugno del 1915 e il genocidio degli armeni entrava nella sua fase più crudele. Quel vescovo si chiamava Ignatius Maloyan, e oggi – a distanza di 110 anni – Papa Leone si prepara a riconoscerlo come santo martire della Chiesa. L’annuncio era stato previsto già da Papa Francesco durante un ricovero ospedaliero. 

Tra gli otto nuovi santi che saranno proclamati, la figura di Monsignor Maloyan, arcivescovo armeno-cattolico di Mardin, città crocevia millenario di civiltà, un mosaico di religioni, lingue e riti, brilla per il coraggio con cui affrontò la barbarie del genocidio. Non fu l’unico, ma fu tra i primi a morire da vescovo, da leader, da coscienza viva di una comunità sterminata.

Un uomo tra due mondi

Shoukrallah Maloyan nacque il 19 aprile 1869 a Mardin, nel cuore dell’Impero Ottomano. La città, sospesa tra l’altopiano anatolico e le pianure siriane, era un centro nevralgico di commercio e spiritualità: sede di numerosi monasteri, chiese cattoliche e ortodosse, e luoghi d’incontro tra musulmani, cristiani e yazidi. Lì cresceva una delle tante minoranze cristiane d’Oriente: gli armeni cattolici, fedeli a Roma ma di rito orientale.

Nel 1896 fu ordinato sacerdote nel monastero di Bzommar, in Libano, assumendo il nome di Ignatius, in onore di Sant’Ignazio d’Antiochia, martire del II secolo. Fu quasi un presagio. Dopo un periodo in Egitto, fu eletto arcivescovo di Mardin nel 1911. In pochi anni riordinò le parrocchie, rinnovò il seminario, introdusse la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Ma sopra la sua città, e sopra tutta l’Anatolia, già si addensavano nuvole sinistre.

L’ombra della guerra

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero Ottomano entrò nel conflitto a fianco degli Imperi Centrali. La propaganda nazionalista dei Giovani Turchi cominciò a indicare nei cristiani — armeni, siriaci, caldei — un nemico interno. Il sogno pan-turanico di una “Grande Turchia” che si estendesse fino all’Asia Centrale prevedeva un’Anatolia etnicamente omogenea. E per questo, gli “altri”, i cristiani, dovevano sparire.

Nel suo diario, Ignatius Maloyan annotava con crescente inquietudine le voci di una “soluzione finale” in arrivo. Tuttavia, mantenne una linea di fedeltà allo Stato. Il 20 aprile 1915, ricevette addirittura una medaglia e un diploma dal Sultano, in segno di riconoscimento per il suo servizio alla patria. Ma quella decorazione non lo protesse.

Pochi giorni dopo, cominciarono le prime perquisizioni. Il 22 aprile, le autorità militari circondarono la cattedrale armena, cercando armi e documenti compromettenti. Trovarono solo libri, lettere in francese, corrispondenze religiose. Bastarono. Il vescovo, come tanti altri a Mardin, fu accusato di complottare con la Francia, nemica del sultano. 

L’arresto e le torture

Il 3 giugno 1915, un gruppo di funzionari giunti da Diyarbekir arrestò Maloyan e collaboratori ecclesiastici, tra cui sacerdoti, catechisti, laici. Il 5 giugno, furono rinchiusi nella prigione di Mardin insieme a oltre 800 cristiani, tra armeni cattolici, siriaci cattolici e ortodossi, caldei. La strategia — come ricostruito dallo storico David Gaunt nel libro Massacres, Resistance, Protectors — era precisa e spietata: prima gli intellettuali, poi gli uomini, poi donne e bambini. Durante il processo, il capo della polizia, Mamdooh Bek, chiese al Vescovo di convertirsi all’Islam. Il Vescovo rispose che non avrebbe mai tradito Cristo e la Sua Chiesa. Il buon pastore dichiarò di essere pronto a subire ogni genere di maltrattamenti e persino la morte, e che in ciò avrebbe trovato la sua felicità.

Nel carcere, il vescovo fu sottoposto a torture indicibili: bastonate, flagellazioni, le unghie dei piedi strappate, il volto sfigurato. Gli chiesero più volte di abiurare, di convertirsi all’islam. In cambio gli sarebbe stata risparmiata la vita. La risposta fu sempre la stessa: un secco rifiuto. Il 9 giugno, sua madre lo visitò e pianse vedendolo in quello stato. Ma il coraggioso Vescovo la incoraggiò. Il giorno successivo, i soldati radunarono quattrocentoquarantasette armeni. I soldati, insieme ai convogli, presero la via del deserto.

L’ultima processione

Il 10 giugno, i prigionieri furono incatenati in gruppi di quaranta, e parati per le vie di Mardin in un’umiliante processione verso la morte. Maloyan, a piedi nudi e a capo scoperto, incedeva sorretto da due guardie. Dai villaggi musulmani arrivarono pietre. Dai villaggi cristiani si pregava e piangeva in silenzio. I detenuti furono portati fuori città, lungo la strada per Diyarbakır. Nessuno si convertì. Maloyan, prima dell’esecuzione, celebrò l’Eucaristia con frammenti di pane distribuiti ai prigionieri. Il Vescovo incoraggiò i suoi parrocchiani a rimanere saldi nella fede. Poi tutti si inginocchiarono con lui. Egli pregò Dio affinché accettassero il martirio con pazienza e coraggio. I sacerdoti concessero l’assoluzione ai fedeli. 

Uno dei soldati, testimone oculare, raccontò questa scena: “In quell’ora, vidi una nuvola che copriva i prigionieri e da tutti emanava un profumo soave. C’era un’espressione di gioia e serenità sui loro volti”. Stavano tutti per morire per amore di Gesù. Dopo una marcia di due ore, affamati, nudi e incatenati, i soldati attaccarono i prigionieri e li uccisero sotto gli occhi del Vescovo. Dopo il massacro dei due convogli, arrivò il turno del Vescovo Maloyan.

Mamdooh Bek chiese nuovamente a Maloyan di convertirsi all’Islam. Maloyan rispose:
“Ti ho già detto che vivrò e morirò per la mia fede e religione. Mi vanto della Croce del mio Dio e Signore”. Mamdooh si infuriò, estrasse la pistola e sparò a Maloyan. Prima di esalare l’ultimo respiro, egli gridò forte: “Mio Dio, abbi pietà di me; nelle tue mani affido il mio spirito”. 

Il peso della memoria

La notizia della sua morte scosse anche l’Europa. I consoli tedeschi, allora alleati dei turchi, denunciarono l’omicidio come un “insulto alla civiltà”. Il Papa Benedetto XV scrisse personalmente al Sultano per protestare. La risposta fu glaciale: “Non possiamo distinguere tra i pacifici e i ribelli. Il castigo è collettivo.”

Tuttavia, la voce di Maloyan non si spense. L’indignazione internazionale fu tale che non molto tempo dopo il Sultano fece cessare le ostilità. Il vescovo armeno fu beatificato da Giovanni Paolo II il 7 ottobre 2001, durante il Sinodo dei vescovi d’Oriente. Il Papa disse: “La sua morte è la testimonianza di una fede che nulla può spezzare: né le minacce, né la tortura, né la morte”. E ora, sotto Papa Leone XIV, la Chiesa compie l’ultimo passo: la canonizzazione. Non solo come riconoscimento di santità personale, ma come atto di riparazione storica, spirituale e morale verso una Chiesa spesso dimenticata: quella dei cattolici orientali, martirizzati non per scelte politiche, ma per la sola colpa di esistere come cristiani.

Nel proclamare santo Ignatius Maloyan, Roma restituisce voce e dignità a una delle pagine più tragiche del Novecento. È anche un richiamo alla memoria storica, contro l’oblio. Il genocidio armeno, in cui morirono oltre 1,5 milioni di persone tra il 1915 e il 1923, resta una delle tragedie meno riconosciute del Novecento. Maloyan, con il suo sangue e la sua voce, ci chiede di non dimenticare. E ci ricorda, nel cuore del terzo millennio, che la santità è anche resistenza contro l’ingiustizia. 

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