Con un decreti legislativo del governo Bonomi, il consiglio dei ministri riconobbe il voto alle donne per la prima volta nella storia del nostro paese a presentare la proposta di legge furono due politici, rappresentanti non solo di due partiti radicalmente diversi, ma due mondi radicalmente diversi presto in guerra tra loro: Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana). Eppure le loro differenze non impedirono di presentare e approvare una legge di civiltà che per la prima volta nel nostro Paese, soprattutto dopo 20 anni di Fascismo e cinque anni di guerra, dava anche alle donne il diritto a scegliersi i propri rappresentanti.
Qualcosa che oggi sembra impensabile: partiti diversi fra loro che concorrono nel fare qualcosa per il bene di tutta la cittadinanza. Questo evento segnò un punto di svolta nella storia del Paese, riconoscendo finalmente un diritto fondamentale a metà della popolazione, fino ad allora esclusa dalla vita politica. Ma come si è arrivati a questa conquista?
Prima del 1945, le donne italiane erano considerate cittadine di serie B, senza diritto di voto e con un ruolo relegato quasi esclusivamente alla sfera domestica. Il dibattito sul suffragio femminile aveva avuto inizio già alla fine dell’Ottocento, sostenuto da movimenti femministi e da alcune figure illuminate della politica e della cultura. Tuttavia, la resistenza maschile e le strutture patriarcali della società ostacolarono ogni progresso.
Durante il fascismo, la situazione rimase immobile. Mussolini, pur concedendo alle donne il diritto di voto alle elezioni amministrative nel 1925, negò loro la possibilità di partecipare alle elezioni politiche. Il regime, infatti, vedeva il ruolo femminile esclusivamente legato alla famiglia e alla maternità, piuttosto che alla vita pubblica.
Fu solo con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la caduta del fascismo che si aprì uno spiraglio di cambiamento. L’Italia si trovava in un momento di ricostruzione, e la necessità di una società più giusta ed equa spinse il governo Bonomi a estendere il diritto di voto alle donne. La decisione fu sancita con il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, e il 2 giugno 1946 le donne poterono votare per la prima volta in un’elezione nazionale, contribuendo alla nascita della Repubblica Italiana.
Se il diritto di voto è ormai un caposaldo della democrazia, altre conquiste femminili sono oggi sotto attacco in diverse parti del mondo, e anche in Italia non mancano segnali preoccupanti.
Il divario retributivo tra uomini e donne , per esempio, è ancora una realtà. Le donne guadagnano in media meno degli uomini e sono spesso escluse dai ruoli dirigenziali. Inoltre, la maternità continua a rappresentare un ostacolo alla carriera femminile, con molte donne costrette a scegliere tra lavoro e famiglia.
Nonostante l’inasprimento delle pene per i reati di violenza di genere, il fenomeno dei femminicidi e degli abusi sulle donne resta una piaga sociale. Servono più risorse per i centri antiviolenza e una maggiore sensibilizzazione culturale per combattere la mentalità patriarcale ancora diffusa.
Le donne inoltre sono ancora sottorappresentate nei luoghi di potere, sia in politica che nelle aziende. Le quote rosa hanno aiutato a migliorare la situazione, ma non bastano: serve un cambiamento culturale che favorisca una vera parità.
L’ottenimento del diritto di voto nel 1945 fu una conquista fondamentale per le donne italiane, ma la lotta per la parità non è finita. Oggi, i diritti conquistati con fatica rischiano di essere erosi da politiche conservatrici e da una società che ancora fatica ad accettare la piena uguaglianza.
È necessario continuare a lottare affinché nessuna conquista venga messa in discussione e perché le nuove generazioni possano vivere in un Paese davvero equo e democratico.