Nel cuore di un’Europa scossa da guerre, populismi, crisi sociali e inquietudini identitarie, la parola “ecumenismo” assume una risonanza inattesa. Un tempo relegata ai convegni teologici, oggi essa ritorna con forza come chiave di sopravvivenza spirituale e coesione politica. L’unità dei cristiani, in un’epoca di fratture, non è più un’opzione: è una necessità profetica.
Lo ha dimostrato il dibattito svoltosi il 6 aprile 2025 presso la Chiesa Evangelica della Santissima Trinità di Varsavia, con relatori come Mons. Manuel Enrique Barrios Prieto (Segretario generale dei vescovi europei, COMECE), il luterano Rev. Frank-Dieter Fischbach (Segretario generale della CEC) e D. Piotr Mazurkiewicz (politologo e teologo polacco). Una tavola rotonda che ha sottolineato l’urgenza di ripensare il ruolo pubblico delle Chiese, nel cuore delle istituzioni europee, e nel cuore delle coscienze.
Il volto spirituale dell’instabilità
L’instabilità in Europa non è solo il riflesso di dinamiche geopolitiche — dal conflitto russo-ucraino all’equilibrio fragile tra USA e Cina. È un crollo della fiducia nei pilastri culturali e spirituali che avevano sorretto il sogno europeo. Non sappiamo più chi siamo, né dove andiamo: è l’incertezza che paralizza l’anima dell’Europa.
Occorre stare in guardia contro un’“anestesia del discernimento”, mentre al contrario l’Europa è stata fondata sulla riconciliazione, la cooperazione, la pace. Ora sembra che la fiducia reciproca, a volte anche tra Chiese, sia tornata merce rara.
L’instabilità non è solo politica. È antropologica
Stiamo vivendo un’epoca di incertezza strutturale». Alla guerra in Ucraina e alla crisi dell’ordine globale si sommano la digitalizzazione incontrollata, l’erosione del senso civico, l’analfabetismo religioso di ritorno. In questo scenario, la Chiesa non può limitarsi alla conservazione. Deve tornare a pensarsi come voce profetica, come ricorda Evangelii Gaudium: «La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione» (n. 14). Ma quale attrazione esercita una Chiesa divisa, impaurita, ripiegata su di sé?
L’ecumenismo è spiritualità, ma anche politica
Il lavoro di COMECE e CEC, che rappresentano rispettivamente le Chiese cattoliche e le Chiese protestanti e ortodosse presso l’Unione Europea, si inserisce nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II, il quale ha riaffermato la vocazione ecumenica come parte essenziale della missione della Chiesa: «Il sacro Concilio esorta tutti i fedeli cattolici ad unire la preghiera, l’azione e la sofferenza con quelle dei fratelli separati, affinché tutti insieme, seguendo con umiltà e mitezza la verità, si ricongiungano nella comunione della Chiesa»
(Unitatis Redintegratio, n. 5).
Non è solo una questione di teologia. L’ecumenismo, in questo contesto, è un atto profondamente politico: è la volontà di costruire ponti in un tempo in cui tutto spinge alla chiusura. Lo dimostrano le sinergie tra COMECE (Commissione degli episcopati cattolici dell’UE) e CEC (Conferenza delle Chiese europee), che dialogano regolarmente con le istituzioni comunitarie grazie all’Articolo 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Ma attenzione: questo dialogo non significa omologazione. Ad esempio dentro la stessa Chiesa cattolica convivono visioni molto diverse sulla famiglia, sulla pace, sull’immigrazione. Eppure è proprio nel confronto, anche acceso, che può nascere una testimonianza credibile. Il vero miracolo ecumenico è che, nonostante tutto, ci si ascolta, si dialoga e si cerca un linguaggio comune.
Una teologia pubblica?
Nel dibattito è emerso il concetto di “teologia pubblica”, cioè una teologia che sa entrare nel foro delle coscienze civiche, senza imporsi. Non siamo qui per dettare leggi, ma per offrire discernimento. Un ruolo che Deus Caritas Est di Benedetto XVI ha descritto con chiarezza: «La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che un semplice tecnico dell’equilibrio di poteri; essa è il modo mediante il quale l’uomo si prende cura della società». In quest’ottica, la voce delle Chiese non può ridursi a lobby religiosa, ma dev’essere coscienza inquieta. Anche scomoda. Anche minoritaria. Ma capace di profezia.
Dall’unità interna alla testimonianza pubblica nel tempo della frammentazione
Uno dei nodi emersi con forza è proprio la coerenza interna delle Chiese. Come possono annunciare la pace e l’inclusione se al proprio interno convivono visioni opposte sulla migrazione, il genere, la guerra? Il Sinodo sulla sinodalità, voluto da Papa Francesco, è un tentativo storico di affrontare queste fratture nella verità e nella carità: «Ascoltare è più che sentire. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare» (Documento preparatorio del Sinodo, n. 2) .
L’ecumenismo, in questo contesto, è scuola di umiltà e laboratorio di riconciliazione. Nel finale del dibattito, è emersa una metafora potente: la Chiesa come “condizionatore” etico-sociale. Citando Martin Luther King, si è detto che essa deve “prendere la temperatura del mondo” e trasformarla in una condizione vivibile, giusta, umana. Non può più parlare solo “ai suoi”, né rifugiarsi nell’alibi dell’irrilevanza. Sarà, però, sempre più una minoranza; una minoranza significativa, non per contare nei sondaggi, ma per segnare le coscienze. E come ha detto Benedetto XVI: «Il vero problema del nostro tempo è la crisi di Dio: l’assenza di Dio mascherata da una religiosità vuota» (Omelia, 1 gennaio 2010).
Ma per svolgere questo ruolo, la Chiesa deve prima di tutto ritrovare la propria voce profetica, che non è quella del potere, ma del Vangelo vissuto. E come? Attraverso un’autoanalisi coraggiosa: sul rapporto con la democrazia, con la tecnologia, con le disuguaglianze. Come gestire il dissenso interno, senza soffocarlo? Come parlare di pace senza scivolare nella retorica? E come custodire l’identità cristiana senza trasformarla in ideologia?
Domande che toccano nervi scoperti. Soprattutto quando il cristianesimo viene strumentalizzato da movimenti nazionalisti o da politici che, in nome della fede, seminano paura e intolleranza.
Conclusione: l’ecumenismo è la grammatica di una nuova Europa
Il panel di Varsavia ha offerto molto più di uno scambio accademico: ha rappresentato una confessione pubblica di vulnerabilità e una dichiarazione d’intenti. Le Chiese non hanno tutte le risposte, ma custodiscono una memoria lunga, capace di attraversare le tempeste della storia. In un’Europa tentata dalla divisione, dal cinismo e dalla paura, l’ecumenismo si configura come una grammatica alternativa: non quella del potere, ma quella della comunione
L’Europa non ha bisogno di Chiese arroganti, o Chiese silenziose o frammentate, ma di Chiese umili e radicate nel Vangelo. Ha bisogno di custodi di memoria e seminatori di futuro. Chiese profetiche con i piedi nel fango della storia, in grado di guardare lontano senza dimenticare il dolore presente. Chiese che sappiano offrire non solo risposte, ma anche speranza. La speranza che la fede, pur nelle sue diversità, pur tra Spirito e istituzione, possa ancora generare comunione.