«Al centro del triduo pasquale palpita un cuore, quello del Venerdì Santo. Tra il bianco della Cena del Signore e quello della sua Risurrezione, la liturgia interrompe la continuità cromatica, tingendo di rosso tutti i paramenti: è un invito, per i nostri sensi, a sintonizzarci sulle tonalità intense e drammatiche dell’amore più grande»: con queste espressioni, fra Roberto Pasolini – Cappuccino e Predicatore della Casa Pontificia – ha dato avvio al suo pensiero omiletico, nella celebrazione della Passione del Signore, all’interno della Basilica Vaticana di San Pietro, venerdì scorso, 18 aprile.
«Oggi la Chiesa si ferma – ha proseguito il Predicatore – e contempla non il fallimento di Dio, ma il suo misterioso trionfo, in una forma paradossale: quella della croce, come già annunciavano i Profeti».
«In un tempo come il nostro, così ricco di intelligenze artificiali, computazionali, predittive, il mistero della passione e morte di Cristo ci propone un altro tipo di intelligenza: l’intelligenza della croce, che non calcola ma ama, che non ottimizza, ma si dona; un’intelligenza non artificiale, ma profondamente relazionale, perché aperta a Dio e agli altri. In un mondo in cui sembrano – ormai – gli algoritmi a suggerirci cosa desiderare, cosa pensare e persino chi essere, la croce ci restituisce la possibilità di una scelta autentica, fondata non sull’efficienza, ma sull’amore che si consegna».
Nella passione di Cristo possiamo riconoscere quella intelligenza di amore, in cui è nascosta la salvezza del mondo: ha ricordato fra Roberto; come anche: quel fiducioso abbandono alla volontà del Padre, ma ben radicati nel proprio personale cammino.
Come si può vivere una piena fiducia in Dio, senza smettere di essere protagonisti della propria storia? Nostro Signore Gesù Cristo ce lo rivela nella sua passione: l’arresto al Getsemani, nel quale Gesù testimonia di affrontare per primo la realtà, senza subirla; la richiesta, dall’albero della croce, di essere dissetato, non nascondendo – dunque – «tutto il suo bisogno», senza inutile vergogna, quel bisogno di essere amato, ascoltato, accolto: «L’amore più vero non si impone, ma si lascia aiutare»; l’ultimo momento è quello del compimento, quell’atto di nudità e suprema libertà che, nel dono, rende pieno l’amore; esso rivela che è proprio il limite – e non la forza – a salvare il mondo.
«Gesù ci rivela che non è la forza a salvare il mondo, ma la debolezza dell’amore, quella che non trattiene nulla e si consegna. Il tempo in cui viviamo, segnato dal mito della prestazione e sedotto dall’idolo dell’individualismo fatica a riconoscere i momenti di sconfitta o di passività come luoghi possibili di compimento».
Fra Roberto ha concluso la sua omelia riconsegnandoci le ultime parole del Crocifisso, le quali rivelano la generatività di una esistenza che si consegna proprio nel momento della debolezza; l’azione più bella da compiere rimane il dono di sé, l’abbracciare la via della croce come unica possibile per la redenzione; nella certezza di essere sorretti dallo Spirito, che anima di speranza ogni esistenza. «Dio è nostro Padre e noi siamo tutti fratelli e sorelle, in Cristo Gesù, nostro Signore».