Proseguono le nostre riflessioni sulla enciclica Laudato si’ di papa Francesco, a dieci anni dalla sua promulgazione. Ci sta accompagnando in questo itinerario Oriana Leone, animatrice del circolo “Laudato si’ Don Tonino Bello” di Tricase (LE) e operatrice Caritas nella diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca (LE).
Oriana, i primissimi paragrafi della Laudato si’ portano il seguente titolo: “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”.
Quali segni di attenzione nei confronti del nostro pianeta vedi essersi affermati in questi anni di Magistero di papa Francesco?
In questi anni, Laudato si’ è diventata per molti una bussola. Forse non nella quantità che ci saremmo augurati, ma nella qualità sì. Ho visto crescere piccoli segni di una consapevolezza nuova, una conversione lenta ma reale che parte dalle comunità, dalle famiglie, da chi – come noi – prova a vivere il Vangelo a partire dai margini.
Il Magistero di papa Francesco ha saputo parlare al cuore delle persone semplici e dei popoli feriti. Ci ha ricordato che tutto è connesso e che non possiamo più vivere da spettatori. Personalmente, nel mio piccolo, l’ho toccato con mano nei percorsi educativi, nei progetti culturali, nei volti dei giovani che iniziano a capire che prendersi cura della Terra è un atto d’amore concreto. È come se la Laudato si’ ci avesse dato il vocabolario per nominare ciò che nel cuore già sentivamo: che la Terra non è “ambiente”, ma è madre, sorella, casa.
Ci ha ricordato che la crisi ambientale non è solo una questione ecologica, ma è prima di tutto una questione di cura, di relazioni spezzate. Ho visto emergere piccole comunità che si sono fermate ad ascoltare il grido della Terra e dei poveri, che hanno scelto di vivere in modo più sobrio, più essenziale, più giusto. Ho visto giovani che hanno preso sul serio il Vangelo anche nelle scelte quotidiane, e ho incontrato volti che, senza grandi parole, incarnano una spiritualità semplice e concreta della custodia.
Ma ciò che mi commuove di più è quando la cura diventa presenza. Non si tratta solo di fare azioni “ecologiche” – piantare alberi, ridurre la plastica – ma di fermarci come Pietro e Giovanni alla Porta Bella del tempio (cfr. At 3,1-10), dove ogni giorno c’è qualcuno che attende. La vera attenzione nasce quando riconosciamo la bellezza del sostare. Non solo dare qualcosa, “ma stare con”. Guardare, tendere la mano, offrire uno sguardo che dice: “Ti vedo, sei importante, sei casa anche tu”.
Un cuore che ama, secondo il Vescovo di Roma Francesco, si accorge di: “Una stessa preoccupazione” (7-9), “Quello che sta accadendo alla nostra casa” (17-19), “Cultura dello scarto” (20-22), “Perdita di biodiversità” (32-42), “Deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale” (43-47), “Inequità planetaria” (48-52).
Quale vocazione evangelica scorgi, a partire da queste affermazioni?
La vocazione che sento è quella alla cura del fratello e della sorella feriti – umani o non umani – che giacciono sulla soglia della nostra indifferenza. È quella che ci chiede di riconoscere che quella soglia, dove lo storpio aspetta ogni giorno, non è solo un luogo fisico, ma può diventare un tempo nuovo: un oggi di salvezza, un kairòs.
La Porta Bella non è la casa, ma non è nemmeno il fuori. È un punto di passaggio, un confine fragile tra ciò che è dentro e ciò che è fuori. Lì possiamo scegliere: passare oltre o fermarci. Il Vangelo ci chiede non tanto di risolvere tutto, ma di saperci fermare. A volte per ascoltare, a volte per abbracciare, altre volte semplicemente per restare in silenzio accanto.
E capita, a volte, che quello storpio siamo noi. Siamo noi a sentirci inadeguati, fermi, fuori dal ritmo della vita. Ma proprio lì, su quella soglia, arriva qualcuno che ci guarda negli occhi e ci dice: «Non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do» (At 3,6). La vocazione evangelica è allora doppia: essere discepoli che si fermano e feriti che si lasciano incontrare.
L’enciclica di papa Francesco mette in evidenza – fin dai suoi primi numeri – che la crisi ambientale è anche degrado della persona umana; egli, infatti, ha scritto: «La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi» (2).
Come possiamo aiutare i nostri cuori a guarire, per saper amare sempre meglio?
Guarire il cuore è come sedersi su quella soglia ogni giorno. Non per aspettare la carità di qualcuno, ma per imparare a ricevere lo sguardo di Dio. Il cuore guarisce quando smette di correre, quando si concede il tempo della presenza, dell’ascolto, del contatto con la propria fragilità. Per me, la guarigione non è mai una conquista, ma un cammino lento, fatto di incontri, di lacrime, di silenzi densi.
Amare meglio significa non passare oltre, non avere fretta, non voler “fare qualcosa” a tutti i costi, ma essere lì. A volte basta questo. Quando Pietro dice allo storpio: «Guardaci!», non sta offrendo una soluzione, ma una relazione. Sta offrendo sé stesso.
Anche noi possiamo guarire così: scegliendo ogni giorno di abitare le soglie della nostra vita non come luoghi di esclusione o attesa passiva, ma come spazi di passaggio, dove l’amore può farsi incontro e il dolore può diventare danza.
Perché quando il cuore si lascia amare, comincia a danzare anche lui – come quello storpio che entrò saltando nel tempio, lodando Dio (cfr. At 3,8).
Riflessione conclusiva
Perché casa non finisce sulla soglia.
Anzi, forse è proprio lì che comincia davvero. La soglia è quel luogo fragile dove si decide se chiudersi o aprirsi, se passare oltre o fermarsi. È un confine, ma anche una promessa. E ogni volta che usciamo, portando con noi uno sguardo capace di accogliere, una parola che sa restare, una mano che si fa carezza, la nostra casa si allarga.
Per me, casa è dove qualcuno si sente visto e amato. E questo può accadere ovunque: in una strada, su un gradino, sotto un portico, accanto a un dolore. La casa non è solo il luogo che abitiamo, ma la qualità con cui scegliamo di abitare il mondo. Così, anche quando ci sentiamo noi stessi sulla soglia – incerti, stanchi, spaesati – possiamo scoprire che Dio abita lì. Che ci viene incontro proprio lì.