Il termine “trasfigurazione”, metamorphosis in greco, significa letteralmente cambiamento di forma. Si riferisce all’evento della vita di Cristo raccontato dai sinottici (Mt 17,1-9; Mc 9,2-10; Lc 9,28-36) che si svolge sul monte Tabor, durante la salita a Gerusalemme. Matteo colloca l’evento dopo il discorso di Cristo sul Regno e l’annuncio della sua Passione e Resurrezione, prima dunque della Passione. Anche in Marco, è dopo aver parlato della Croce e annunciato la venuta del Regno di Dio “con forza”, che avviene la trasfigurazione. In Luca la scena si colloca alla fine del suo ministero in Galilea e prima di quello in Giudea, e precede anche qui il racconto della Passione. Questo legame che unisce la Trasfigurazione alla Passione è il motivo per cui la Chiesa celebra la Trasfigurazione il 6 agosto, cioè quaranta giorni prima dell’Esaltazione della Croce, il 14 settembre. La trasfigurazione, come ricorda Giovanni Damasceno, rivela la divinità del Dio incarnato: Cristo fu trasfigurato “non aggiungendo a sé ciò che non era, non trasformandosi in ciò che non era, ma manifestando ai suoi stessi discepoli ciò che era, aprendo loro gli occhi e ridando la vista ai ciechi“. Non solo rivela la divinità nascosta nell’umanità di Cristo, ma apre la vera vocazione dell’uomo, la sua divinizzazione. “Partecipare della natura divina” (2 Pt 1,4), come recita la formula dell’apostolo Pietro, testimone della trasfigurazione, e come hanno ricordato dopo di lui diversi Padri della Chiesa. Già Ireneo di Lione aveva affermato nel II secolo che “il Verbo di Dio si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi al Verbo e ricevendo così la filiazione adottiva, diventi figlio di Dio“. A lui senz’altro si ispirò Atanasio di Alessandria, che gli fa eco: “Dio si è fatto uomo perché noi potessimo diventare Dio“. La trasfigurazione è un evento corporeo e ricorda ai cristiani che è nella carne che si compie il mistero della salvezza; per usare un’espressione di Andrea di Creta, la trasfigurazione di Cristo ci rivela “la divinizzazione della natura umana“. Il corpus delle omelie attribuite a Macario d’Egitto (inizio V secolo) ritorna spesso sulla trasfigurazione del corpo umano: “Come il corpo del Signore fu glorificato quando salì sul monte e si trasfigurò nella gloria di Dio e nella luce infinita, così i corpi dei santi sono glorificati e risplendono come astri“. La salvezza non è quindi liberazione dell’anima da una prigione materiale, come pensava il platonismo, ma comporta la trasfigurazione e la resurrezione del corpo. Il nuovo cielo e la nuova terra di cui parla l’Apocalisse (Ap 21,1) non implicano che la creazione presente sarà distrutta, ma che sarà liberata dalla corruzione, purificata, trasfigurata e glorificata. Già a partire dal I secolo la visione platonica della corporeità si era scontrata con la rivelazione cristiana: gli gnostici rifiutavano tutto ciò che era materiale, ritenendolo malvagio e incompatibile con la salvezza. Combattendo vigorosamente la galassia delle eresie gnostiche, Ireneo di Lione affermò chiaramente che il mondo non è chiamato a scomparire, ma ad assumere una forma più gloriosa. La ricapitolazione finale riguarda anche il mondo materiale, anche il mondo della carne dell’uomo, che Gesù ha voluto assumere personalmente, creando così un nuovo legame con questo mondo. Non sarà nemmeno un ritorno all’origine, al giardino dell’Eden; piuttosto, una trasformazione che non possiamo immaginare. Per i Padri della Chiesa la trasfigurazione di Cristo è veramente la rivelazione di quel mistero nascosto dall’eternità, che rivela la gloria alla quale ogni uomo è chiamato, ma anche la vocazione della creazione materiale. “Hai santificato l’universo intero con la tua luce”, proclama un inno dell’ufficio bizantino della Trasfigurazione. L’uomo non viene salvato dal mondo materiale, ma viene salvato con il mondo materiale. La sua salvezza comprende anche la riconciliazione e la trasfigurazione di tutta la creazione che lo circonda, la liberazione dalla schiavitù della corruzione “per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21). Trasfigurare il mondo: ecco dunque una delle principali vocazioni dell’uomo, che comincia innanzitutto con una trasformazione personale. Trasfigurare il mondo significa innanzitutto la rinuncia al peccato e la conversione a Dio. E questa è l’anima della vocazione monastica. Quando i monaci parlavano della fuga dal mondo o della rinuncia al mondo come prima tappa, non volevano richiamarsi a Platone: indicavano che la salvezza cominciava con la rinuncia al mondo del peccato, cioè con una trasformazione del nostro sguardo e del rapporto con le cose mondo. E tutto questo comporta necessariamente una trasformazione del mondo. Questo è un punto su cui ha insistito molto il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, detto per questo “il patriarca verde”: l’attuale crisi ambientale ci ricorda che solo cambiando il nostro rapporto con il creato riusciremo a preservarlo. E in questo cammino di progressiva trasfigurazione siamo tutti uniti e fratelli: Doroteo di Gaza, monaco palestinese del VI secolo, lo spiegava con l’immagine del cerchio, il cui centro è Dio. Più ci avviciniamo al centro, più ci avviciniamo gli uni agli altri. “Acquistate la pace e migliaia intorno a voi saranno salvati” amava ripetere molto tempo dopo san Serafino di Sarov (1759-1833) ai suoi discepoli. È così che i monaci e le monache, ieri come oggi, rinunciando al mondo e pregando per il mondo, contribuiscono alla sua trasfigurazione.
Trasfigurare il mondo è pertanto la risposta cristiana alla secolarizzazione, che persegue uno stile di vita segnato dall’egoismo e dall’edonismo, che riduce il mondo a un supermercato globale. Solo cambiando radicalmente il nostro modo di agire, ristabilendo la piena comunione della creatura con il suo Creatore, potremmo essere «sale della terra» (Mt 5,13), anima del mondo e capaci di illuminare e trasfigurare il mondo attorno a noi.