Il mondo degli affetti è un ambito della vita cui la contemporaneità è molto sensibile, ma il suo carattere sempre più soggettivo in senso emozionalistico richiede con urgenza una riflessione filosofica in grado di trattare unitariamente il tema della relazione affettiva e quello della sua l’implicazione etica.
Il tema dell’affettività e, più in particolare, della sessualità, è ampiamente studiato nel campo delle scienze umane ma lo è meno sotto il profilo di una più essenziale fondazione antropologica. Il tema emerge per tratti rilevanti nell’ambito del pensiero contemporaneo, ma solo di rado con un’elaborazione teoretica.
Su una base minima di indagine antropologica è possibile una riflessione sull’etica della relazione affettiva e il punto di partenza è la rilevazione, ampiamente documentata dalle scienze psicologiche e sociologiche, dell’attuale situazione dicotomica, se non scissa, tra esperienza affettiva ed esercizio razionale. Dal punto di vista filosofico questa situazione antropologica evidenzia probabilmente il passaggio dalla modernità romantica ad una postmodernità emozionalistica.
L’amore stesso risulta essere malato, affetto da germi patogeni derivanti da un sostrato interpretativo dell’umano, da un certo punto di vista, sconveniente. Senza dubbio la crisi della relazione affettiva dell’uomo contemporaneo è ascrivibile nella più ampia questione antropologica sulla quale incessantemente ci si continua ad interrogare.
La tradizione occidentale, a partire soprattutto dal XII secolo con lo sviluppo della poesia trobadorica provenzale, ha sempre inteso l’amore su base negativa, legandolo ad un concetto di passione sentimentale contrapposto alla ragione. Una passione, come mostra Denis de Rougemont attraverso i suoi studi, spesso fine a sé stessa e marcatamente narcisistica. Un amore, dunque, caratterizzato dall’egotismo di amanti intercambiabili e idealizzati, stereotipati, astratti. Un’affettività ridotta di senso a livello consumistico con la conseguente frustrazione del desiderio inappagato dovuto all’incontro-scontro con l’altra persona reale.
Lungo il tempo abbiamo assistito ad un processo di individualizzazione del soggetto umano che, secondo i sociologi Ulrich Beck ed Elisabeth Beck-Gernsheim, ha comportato una confusione tra le esigenze dell’amore e quelle del mercato del lavoro. La possibilità di divorzio, poi, ha provocato uno smarrimento esistenziale di cui è facile cogliere gli effetti guardando, anche senza particolari capacità d’analisi, alla società attuale.
Il potere del sesso è venuto a legarsi con quello del consumismo e così il significato dell’amore è stato ridotto e spersonalizzato sempre di più. Nei rapporti affettivi, ormai, vige il principio della distanza, un rifiuto della realtà e della minaccia che questa può comportare per il singolo individuo. L’amore di coppia, in particolare, viene vissuto in fin dei conti come solitudine a due.
Tutto ciò può trovare il suo quadro di riferimento in quella società liquida interpretata da Zigmunt Bauman, dove i legami affettivi sono labili e le relazioni tascabili e pronte all’uso non duraturo, destinate prima o poi a fallire. E in tale contesto sociale è significativo come si cerchi man mano di ristrutturare e reinterpretare la relazione d’amore nei diversi stili di vita possibili, orientandola, come nel caso di Antony Giddens, verso l’utilitarismo e una duttilità sessuale svincolata dalla riproduzione e fondata sull’autonomia del singolo, senza però tener conto degli importantissimi risvolti etici che tali visioni della realtà umana e dell’intimità comportano.
Nell’ambito della riflessione morale l’amore erotico, nello specifico, è sempre stato visto come un pericolo, una malattia che il pensiero buono dovrebbe curare, facendo riferimento alla tesi secondo cui l’insorgere del sentimento e delle passioni rappresenta, per certi versi, la disintegrazione dell’essere amante.
Per tale ragione lungo la storia del Pensiero è facile rinvenire veri e propri tentativi di riforma dell’amore, tra i quali va ricordato quello dell’ascesa contemplativa che trova la sua matrice nell’idea di amore esposta nei dialoghi platonici. Ma in realtà, la proposta di riforma dell’amore prospettata da Platone non risponde affatto all’esigenza di coniugare nuovamente l’amore e la passione in un’ottica scevra da problematiche.
La tradizione filosofica occidentale è infatti affetta da quello che Emmanuel Lévinas definirebbe “l’imperialismo del Medesimo”. Tentativo di ingabbiare il molteplice e il diverso nell’ambito di una Totalità unitaria e soffocatrice di ogni alterità e trascendenza. Un’ontologia, pertanto, caratterizzata da una prevaricazione dell’essere nei confronti degli enti, il quale porta inevitabilmente al dominio e alla sopraffazione del prossimo. Ma l’amore richiede invece apertura e accoglienza dell’alterità.
Nella tradizione aristotelico-tomista si trova di nuovo una visione dell’amore tesa alla contemplazione del bene e al suo raggiungimento, ma anche in questo caso, nonostante la rivisitazione dell’idea d’amore da parte di Tommaso d’Aquino, ancora siamo distanti dalla possibilità di accedere in maniera autentica ad una definizione più corretta dell’amore, davvero fondata sul significato profondo dell’essere umano che, come vedremo, risiede nel suo essere persona.
Jean-Luc Marion indaga le aporie insite nella definizione aristotelica dell’amore e a queste risponde attraverso la sua originale riduzione radicale del fenomeno erotico, proponendo stavolta una concezione dell’amore finalmente capace di rispondere alla crisi della relazione affettiva, definendo l’amore secondo tre aspetti: la sospensione della reciprocità, l’atto di amare come sola conoscenza del bene e l’abbandono dell’amore di sé ad altri. È questo il punto di partenza, volendo, di un approfondimento che prende in esame anche il personalismo etico di Karol Wojtyła, il quale transita, in qualche modo, nella stessa direzione delineata da Marion.
Wojtyła è un autore che ha molto meditato sull’uomo; poeta, drammaturgo, filosofo e teologo possiamo definirlo, senza problemi, un vero esperto di antropologia. Egli è stato un uomo che ha meditato sull’uomo scoprendo al tempo stesso l’umano nella sua persona e negli altri per mezzo della sua capacità di profondo dialogo ed empatia.
Particolarmente significativa risulta essere la sua riflessione filosofica basata su una ricerca fenomenologica sull’esistenza umana nel tentativo di andare oltre la tradizione metafisica di ispirazione aristotelico-tomista. Attraverso l’analisi della prassi e dell’atto umano si riesce, infatti, a cogliere la verità profonda dell’essere persona dell’individuo umano riabilitando così quella dignità infinita che spetta all’uomo e messa in discussione soprattutto dal nihilismo di stampo materialista affermatosi man mano, sempre di più, lungo la storia dell’umanità.
La prassi diventa la via di accesso alla coscienza dell’uomo e la sua analisi permette di poter individuare le strutture fondamentali dell’essere umano, colte nella concretezza della sua esperienza di vita: l’uomo in azione, la persona che si coglie nei suoi atti. In questa ottica, l’uomo viene finalmente visto in maniera integrale e la sua realtà può essere interpretata in tutta la sua poliedricità.
Questo pensiero filosofico, capace di cogliere in profondità la verità dell’essere uomo come persona, rappresenta a pieno titolo un elemento di superamento anche della crisi dell’amore in quanto evita di considerare e ridurre l’uomo e la sua affettività a determinate dimensioni, in un nuovo modo di intendere l’amore che trova un fondamentale apporto ermeneutico a partire dalla rivelazione cristiana. Caratteristico, infatti, nella riflessione di Wojtyła è il rapporto dialettico circolare tra fede e ragione.
In ultima analisi, la verità e il significato dell’essere umano risiedono nel suo essere persona e, dunque, nella sua realizzazione più completa, nell’amore. Un amore inteso come dono di sé all’altro, frutto di una libera scelta che richiede fedeltà. Un amore donativo e non acquisitivo, che non desidera il proprio bene particolare ma, prima di tutto e al di sopra di ogni cosa, il bene dell’altro. Un amore che può essere definito nell’altro, per l’altro e con l’altro, che trascende sé stesso e che è chiamato a vivere le sue relazioni nella partecipazione, nella solidarietà e nella comunione.
In questa visione personalista, la dignità assoluta dell’uomo viene fondata sulla sua capacità di stabilire relazioni intersoggettive di conoscenza e di amore con altri uomini e nella sua effettiva comunione con essi, oltre che nei confronti dell’Assoluto, in funzione del quale ogni uomo è considerato “imago Dei”. Wojtyła, in questo modo, porta alle estreme conseguenze la tesi kantiana secondo cui la persona umana deve essere trattata sempre e solo come “fine” e mai come “mezzo”. Ogni uomo deve essere infatti trattato (amato) rispettando e promuovendo il suo fine proprio.
La concezione dell’amore dal punto di vista personalista supera molti degli aspetti critici relativi al tema della relazione affettiva. La passione intesa come donazione dunque in positivo, l’altruismo di base che non cerca il proprio bene ma promuove piuttosto quello della persona amata, il concetto di vicinanza e dedizione ad una persona concreta amabile nella sua assoluta dignità e particolarità, la necessità della comunione esistenziale tra gli uomini come mezzo per la piena realizzazione di se stessi, la capacità di fedeltà ad una scelta d’amore che sia in grado di mantenersi salda anche davanti alle inquietudini della vita di coppia, sono tutti aspetti che in qualche modo risultano essere impliciti nell’amore inteso in senso personalista e che superano tutte quelle criticità che affliggono spesso i rapporti affettivi e l’idea stessa di amore.
E così è possibile riscattare anche l’amore erotico e carnale che, nel pudore e nella semplicità del corpo non reso oggetto, del corpo che è “tu”, soggetto personale, capta la libertà di quella passione che non è più possesso ma spossessamento e donazione autentica.
Immagine:
Maria Kreyn, Alone Together [https://mariakreyn.com/paintings#/alone-together/]