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Il senso di essere famiglia. Papa Leone XIV al Corpo Diplomatico

da | 18 Mag 2025 | Teologia

«Nel nostro dialogo, vorrei che prevalesse sempre il senso di essere famiglia – la comunità diplomatica rappresenta infatti l’intera famiglia dei popoli –, che condivide le gioie e i dolori della vita e i valori umani e spirituali che la animano. La diplomazia pontificia è, infatti, un’espressione della cattolicità stessa della Chiesa e, nella sua azione diplomatica, la Santa Sede è animata da una urgenza pastorale che la spinge non a cercare privilegi ma ad intensificare la sua missione evangelica a servizio dell’umanità». Il Vescovo di Roma, Leone XIV, ha incontrato lo scorso venerdì 16 maggio, in Udienza, nella Sala Clementina, i membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede.

Le sue riflessioni – cariche di lungimiranza e radicate nel precedente Magistero – presentano la comunità ecclesiale come colei che fronteggia «ogni indifferenza e richiama continuamente le coscienze, come ha fatto instancabilmente il mio venerato Predecessore, sempre attento al grido dei poveri, dei bisognosi e degli emarginati, come pure alle sfide che contraddistinguono il nostro tempo, dalla salvaguardia del creato all’intelligenza artificiale». Il suo vivo desiderio espresso rimane quello di «raggiungere e abbracciare ogni popolo e ogni singola persona di questa terra, desiderosa e bisognosa di verità, di giustizia e di pace! In un certo senso, la mia stessa esperienza di vita, sviluppatasi tra Nord America, Sud America ed Europa, è rappresentativa di questa aspirazione a travalicare i confini per incontrare persone e culture diverse»; così come di «confermare nella fede tanti fratelli e sorelle sparsi per il mondo e costruire nuovi ponti con tutte le persone di buona volontà».

Alle Eccellenze, alle Signore e ai Signori presenti, Leone XIV ha consegnato tre parole-chiave, preziose per discernere i segni dei tempi, e per concretizzare l’opera missionaria ecclesiale e quella diplomatica: «La prima parola è pace. Troppe volte la consideriamo una parola “negativa”, ossia come mera assenza di guerra e di conflitto, poiché la contrapposizione è parte della natura umana e ci accompagna sempre, spingendoci troppo spesso a vivere in un costante “stato di conflitto”: in casa, al lavoro, nella società. La pace allora sembra una semplice tregua, un momento di riposo tra una contesa e l’altra, poiché, per quanto ci si sforzi, le tensioni sono sempre presenti, un po’ come la brace che cova sotto la cenere, pronta a riaccendersi in ogni momento. Nella prospettiva cristiana – come anche in quella di altre esperienze religiose – la pace è anzitutto un dono: il primo dono di Cristo: “Vi do la mia pace” (Gv 14,27). Essa è però un dono attivo, coinvolgente, che interessa e impegna ciascuno di noi, indipendentemente dalla provenienza culturale e dall’appartenenza religiosa, e che esige anzitutto un lavoro su sé stessi. La pace si costruisce nel cuore e a partire dal cuore, sradicando l’orgoglio e le rivendicazioni, e misurando il linguaggio, poiché si può ferire e uccidere anche con le parole, non solo con le armi».

Il secondo riferimento del Pontefice va alla «giustizia. Perseguire la pace esige di praticare la giustizia. Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il Papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre peraltro adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, Paesi e anche all’interno di singole società. È compito di chi ha responsabilità di governo adoperarsi per costruire società civili armoniche e pacificate».

La terza consegna del Vescovo di Roma è quella della «verità. Non si possono costruire relazioni veramente pacifiche, anche in seno alla Comunità internazionale, senza verità. Laddove le parole assumono connotati ambigui e ambivalenti e il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, prende il sopravvento senza controllo, è arduo costruire rapporti autentici, poiché vengono meno le premesse oggettive e reali della comunicazione. Da parte sua, la Chiesa non può mai esimersi dal dire la verità sull’uomo e sul mondo, ricorrendo quando necessario anche ad un linguaggio schietto, che può suscitare qualche iniziale incomprensione. La verità però non è mai disgiunta dalla carità, che alla radice ha sempre la preoccupazione per la vita e il bene di ogni uomo e donna».

Il Discorso si è chiuso con i vivi auspici che questo tempo di grazia possa costituire la base di un nuovo cammino di redenzione per la intera umanità: «Il mio ministero inizia nel cuore di un anno giubilare, dedicato in modo particolare alla speranza. È un tempo di conversione e di rinnovamento e soprattutto l’occasione per lasciare alle spalle le contese e cominciare un cammino nuovo, animati dalla speranza di poter costruire, lavorando insieme, ciascuno secondo le proprie sensibilità e responsabilità, un mondo in cui ognuno possa realizzare la propria umanità nella verità, nella giustizia e nella pace».

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