Sabato della seconda settimana di Quaresima
Le parabole della misericordia sono rivolte a un duplice uditorio: ai peccatori che si avvicinano al Dio che sempre attende, sempre cerca e sempre vuole stringerli in un unico abbraccio e agli scribi e ai farisei, ossequienti ad ogni precetto, che si sentono creditori verso un padre-padrone di cui, però, non hanno mai compreso a fondo l’amore. Il figlio prodigo possiede tutto, ma c’è una condizione: tutto è in comune con il padre e il fratello. Il figlio prodigo vuole invece la sua parte; rompe ogni relazione con loro, ottiene l’eredità che gli spetta e la usa solo per sé. Questa chiusura verso gli altri, questa concentrazione su se stessi è simboleggiata dal partire verso un paese lontano. Quanto bene conosciamo storie simili! Forse è anche la nostra storia. Il peccato sta proprio in questo: scegliere la strada che conduce alla fine delle relazioni, quindi alla morte. La vita invece è dialogo, fiducia e relazione continua. Scriveva Isacco di Ninive: “ti ho abbandonato, tu non mi abbandonare. Mi sono allontanato da te, tu mettiti alla mia ricerca. Conducimi al tuo pascolo, tra le pecore del tuo gregge. Nutrimi insieme a loro con l’erba fresca dei tuoi misteri, di cui è dimora il cuore puro, il cuore che porta in sé lo splendore delle tue rivelazioni“.
Il padre cerca, nonostante tutto, di mantenere il rapporto e il dialogo senza tradire in nulla il suo atteggiamento di fondo. È sempre stato padre per l’uno e per l’altro dei suoi due figli; ha sempre avuto affetto e attenzione per entrambi, al piccolo come al grande, senza distinzione. La parabola solleva tutta una serie di interrogativi. Gesù tenta di spingere scribi e farisei a capovolgere i loro criteri, dove tutto sembra ovvio e logico. Il problema è uscire proprio da queste categorie! Se Dio è padre, non si dovrebbe comportare da padre? Ma allora perché la gelosia? Perché l’ira? Perché l’odio? Hanno davvero ragione di esistere e di persistere ancora?
Gregorio Magno, Omelie sui vangeli 34, 1
Dobbiamo chiederci, fratelli miei, perché il Signore afferma che c’è più gioia in cielo per i peccatori giunti a conversione che per la perseveranza dei giusti. La risposta può venire da ciò che noi stessi vediamo e sperimentiamo ogni giorno: spesso coloro che sanno di non avere su di sé alcun peso di colpa restano, sì, nella via della giustizia e non compiono azioni inique, ma tuttavia non hanno un vero anelito alla patria celeste e si concedono molto quanto all’uso delle cose lecite, perché hanno fissa nella mente l’idea di non aver mai compiuto nulla di illecito. Spesso diventano anche pigri nel compiere opere buone di grande importanza, essendo del tutto sicuri di non aver compiuto mali di particolare gravità. Quanti invece sanno di aver compiuto alcune azioni non lecite, presi da compunzione e da dolore, ardono di amore verso Dio, si esercitano nella pratica di grandi virtù, affrontano tutte le prove nella battaglia per la santità, abbandonano i beni di questa vita, fuggono gli onori, sanno gioire anche ricevendo ingiurie, ardono di desiderio, anelano alla patria celeste, e consapevoli di essersi macchiati al cospetto di Dio riscattano il male compiuto prima con meriti acquisiti poi. C’è quindi maggior gioia in cielo per la conversione di un peccatore che per la perseveranza del giusto, come anche un comandante militare ammira di più il soldato che tornato dopo una fuga affronta con forza il nemico, rispetto a quello che, pur non avendo mai voltato le spalle, non ha però compiuto alcuna azione valorosa. Cosi l’agricoltore preferisce di gran lunga un terreno che dopo le spine produce frutti abbondanti, rispetto a quello che pur non avendo spine non produce mai messe copiosa. Trattando questi argomenti occorre però ammettere che vi sono parecchi giusti la cui vita è talmente fonte di gioia per il Signore che non può a loro riguardo essere preferita nessuna vicenda di peccatori pentiti. Molti infatti non sono consapevoli di colpa alcuna e tuttavia si pongono con tanto ardore in atteggiamento di penitenza come se gravasse su di loro il peso di tutti i peccati. Rifiutano ogni piacere anche lecito, sono inclini con fermezza al disprezzo del mondo, non vogliono alcun vantaggio anche se lecito, rinunciano ai beni anche se a loro concessi, disprezzano le realtà terrene e si infiammano per quelle celesti, godono nella sofferenza, si umiliano in ogni situazione, e come alcuni deplorano i peccati effettivamente compiuti essi sentono dolore anche solo per i peccati da cui fossero visitati i pensieri. Come potrei definire costoro se non giusti e — a un tempo — penitenti, dato che si umiliano nella penitenza per i peccati di pensiero e sanno mantenersi, nelle opere, sempre sulla retta via? Possiamo dunque capire quanta gioia rechi a Dio il giusto quando si umilia nel pianto, se anche il peccatore fa nascere gioia in cielo quando condanna mediante la penitenza il male compiuto.