Il 24 ottobre 1964, nel consacrare la chiesa della ricostruita Montecassino in seguito ai bombardamenti che aveva subito durante l’ultimo conflitto, papa San Paolo VI proclamò San Benedetto da Norcia con la Lettera Apostolica Pacis Nuntius Patrono principale dell’intera Europa, definendolo con questi i giusti titoli: “messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà, e soprattutto araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in Occidente“. Nel sessantesimo anniversario di questa felice occasione, pubblichiamo l’omelia che il cardinale arcivescovo dell’Aquila, Carlo Confalonieri, tenne a Montecassino cinque mesi dopo, il 22 marzo 1965, in occasione della festa di San Benedetto.
“Cinque mesi or sono, compiendo i voti di questa illustre comunità benedettina e con aperto plauso del mondo cattolico, il Santo Padre Paolo VI, dalla sua abituale dimora del Vaticano, saliva a Montecassino per dare alla risorta basilica, secondo l’esempio di Sommi Pontefici suoi Predecessori, la consacrazione liturgica e proclamare San Benedetto Patrono principale dell’intera Europa.
Vibra ancora nei nostri cuori l’augusta parola papale che coronava quel solenne rito: coll’esaltazione della pace, qui collocatasi benefica regina sulle tristissime e ammonitrici rovine della guerra; coll’ apologia dell’ideale e della vita religiosa, ancora oggi, come prima, come sempre, preziosi e fecondi; con l’invocazione dei provvidi doni di fede e di unità, tanto necessari alla tranquillità dell’antico continente e di tutto quanto il mondo.
Il ricordo di tale storico evento rende più lieto e festevole l’odierno nostro incontro; e dicendo nostro mi riferisco con sensi di fraterna gioia e rispettoso ossequio a Voi, venerandi Presuli delle diocesi vicine o da speciali vincoli di amicizia collegate: a Voi, diletto Clero e Popolo di questa singolare circoscrizione ecclesiastica: a Voi, egregie Autorità dei vari settori della vita civile e prima fra tutte l’alto Rappresentante del Governo Italiano, e con lui gli onorevoli Delegati delle Nazioni che il Santo ricordano con riconoscenza nelle pagine della loro storia; a Voi, Amici e ammiratori di questo celeberrimo cenacolo di pietà e di studio; ed è bene intuitivo, a Voi, benemeriti Figli e spirituali eredi di San Benedetto, con a capo il degnissimo Abate – Vescovo, dal cui cortese invito mi è venuto l’onore di questa partecipazione; a tutti, in una parola, che siete qui convenuti per celebrare il grande Patriarca del monachesimo occidentale, e proprio nel giorno anniversario del suo transito nella gloria celeste, e quando per la prima volta, in questa data, possiamo vederlo ed esaltarlo nella luminosa aureola del suo felicissimo patronato europeo.
A questo lontano traguardo non pensava certamente il nostro Santo, quando infastidito dai rumori, dalle dissipazioni, dai pericoli di Roma, che dalla nativa Umbria lo aveva ricevuto per motivi di studio, si rifugiò, ventenne appena, in cerca di spirituale tranquillità nelle dense solitudini dei monti Simbruini prima, e finalmente su questo colle da lui arditamente e vittoriosamente redento, dal culto pagano, alla luce liberatrice e santificatrice della Croce di Cristo.
La sua indole, ancorché mite e gioviale, lo portava piuttosto alla interiore meditazione, cioè a quel concentrarsi abituale nelle profondità dello spirito per dimorare nell’intima unione con Dio, e cavare dalle luminosità della fede i tesori valevoli a stagliare una vita che anticipasse nel tempo la feconda quiete della contemplazione beata; là, ispirando la stessa sua Regola monastica, romanamente umana e universale, che nella riconosciuta adattabilità alle vare condizioni del tempi, dei luoghi e delle persone, sembra chinarsi sul singoli argomenti col trano riguardoso e delicato di una mano schiva di agitazioni e contrasti, sollecita perfino di assicurare al monastero la ritiratezza e il silenzio attraverso un autonomia che lo sottragga ai contatti e alle esterne preoccupazioni.
Quanto più st si affonda in Dio, tanto l’anima conquista le sovrane capacità del pacifico dominio di sé e delle cose, la mortificazione cristiana essendo potenziamento dello spirito e delle facoltà che ne dipendono. Benedetto ne ebbe presente la validità, affermata dal Divino Maestro sotto parecchie forme: la clausura della cella dove comunicare col Signore che vede nel segreto; il chicco di grano, deposto nel buio del terreno, solitario, ignorato, che fruttifica in pane per la vita; il pugno di fermento, dalla massaia nascosto nella madia e nottetempo lievita la massa di farina; il minuscolo seme, che diventa albero gigantesco, riparo agli uccelli dell’aria; lo sparuto drappello, al quale il Signore riserva il possesso del regno … e simili insegnamenti, che attestano le preferenze di Dio e, insieme, mostrano quanto siano diverse da quelle degli uomini le vie del Signore. Il Signore sa dove vuoi giungere, e nel silenzio matura le opere sue gigantesche: la natura stessa ne fa ogni giorno testimonianza, rivelandoci gli inesauribili tesori che, nel lento succedersi delle ere geologiche, gelosamente prepara e rinserra.
Oh, che direbbe San Benedetto se, in questo momento, dal riposo solenne del sepolcro levasse il capo e girasse intorno lo sguardo, sull’Italia, oltre le Alpi, verso i confini dell’Europa e di là ancora, sull’orbe intero, e contasse la sua spirituale progenie “gentem magnam” -di ogni filiazione, di ogni riforma, di ogni assimilazione; monaci,
religiose, oblati; di ogni terra e lingua e stirpe – e scorresse la storia dei cenobi che, a cento a cento, in una splendida e variopinta fioritura di scienza e di santità, di penitenza e di apostolato, dopo questa Abbazia, madre fecondissima e generosa, si sono moltiplicati lungo quattordici secoli, nelle valli, sui colli, nelle foreste nei contadi, nelle città, accendendo dovunque fari luminosi di dottrina e focolari vividi di profonda pietà cristiana … che farebbe Egli, il maestro dei dodici gradi di umiltà, se non prostrarsi con la fronte nella polvere, “reputando il bene che è in essi – come scrive nel Prologo – opera non propria ma del Signore, per magnificarlo operante in loro, ed esclamare insieme all’Apostolo: “chi si gloria, nel Signore si glori!”
Il prodigio benedettino, compendiato in quel simpatico e suggestivo motto, tanto scultoreo quanto fecondo: “ora et labora” ci mette dinanzi a due fondamentali realtà della vita, la preghiera e il lavoro. Doveroso e bello l’omaggio del canto di lode che la creatura con gesto spontaneo, innalza al Signore, anche come acquietamento dell’intimo bisogno di comunicare con la Divinità: ma il fatto non scioglie il mistero che, in via normale, Dio leghi alla preghiera, la concessione delle sue grazie. Quanto vi insiste nel Vangelo il Divino Maestro!
Ora ecco San Benedetto, che quel ripetuto appello raccoglie e traduce in costume, si fa, in ben tredici capitoli, mirabile legislatore della preghiera liturgica; attingendola alla ricca fonte della scrittura; distribuendola fra notte e giorno e nel giro delle stagioni, sapientemente; scendendo ad ogni più minuta determinazione, e prevedendone gli adattamenti
per le varie possibili circostanze.
Avvertirà, si con cristiano intuito, che “l’esaudimento dell’orazione non è legato alle molte parole, ma alla purità del cuore e alle lagrime di pentimento”. Questo assicurato, l’ufficiatura sarà l’Opus Dei per eccellenza. La preghiera infatti non e inerzia, ma forza motrice della vita soprannaturale. Come la più nobile delle attività, essa mette in relazione con Dio: creatore delle cose; sapienza che le disegna, le ordina, le penetra; potenza che lancia i mondi negli spazi, e dall’anima umana fa sprigionare le facoltà che alla natura sovrastano e comandano, dentro e fuori; donde, la vigorosa più antica sentenza che rettamente impara a vivere chi rettamente impara a pregare.
Uno dei più grandi bisogni del mondo è questo, di pregare. Si prega poco; alcuni non pregano affatto. L’autosufficienza che, in seguito alle sempre più ardite e spettacolari conquiste della nostra età, dovute ai progressi mirabili della scienza e della tecnica, si è impossessata un po’ di tutto e di tutti, tende a relegare fra le cose inutili la preghiera. E così, rotto il contatto con Dio, il mondo va spiritualmente e moralmente alla deriva. Ci sono bensì ampi sprazzi di luce e di bene, ma non bastano a calmare le preoccupazioni che, in ogni settore responsabile, si addensano per il graduale sgretolamento dei principi etici e religiosi, che sono alla base di ogni civiltà. San Benedetto si presenta tuttora come il santo dell’attualità, ed è da augurarsi che il suo spirito, non soltanto aleggi su nostri tempi, ma come per il passato, così anche ora penetri questa nostra società e le conservi il volto cristiano, che ne è garanzia di nobiltà
e salvezza.
Non è senza un tratto distinto di provvidenza che l’instaurazione nella Chiesa della nuova disciplina liturgica coincida col primo anno del patronato di San Benedetto sull’Europa. L’innovazione, che il Concilio Ecumenico ha coraggiosamente voluto, è stata dovunque salutata dal popolo cristiano con palese simpatia e gioioso sollievo, compreso com’è che, grazie alla riforma, ha riacquistato la parte attiva che gli spettava nella preghiera della Chiesa e nella celebrazione del mister cristiano.
I Figli di San Benedetto – al quale sono bene applicate le lodi che l’Ecclesiastico tributa all’antico grande Sacerdote (47, 9-12) “in tutte le sue opere inneggiò all’Altissimo e intorno all’altare distribuì per il canto strumenti armoniosi, aggiunse decoro alle feste e ornamento ai tempi sacri per tutto l’anno … fece risuonare il Santuario fin dall’ore mattutine” – i Figli di San Benedetto, che tante benemerenze hanno acquistato lungo i secoli nel campo della liturgia, praticata e insegnata con intelligenza e fedeltà (sia lecito, fra tante, ricordare lo studio del canto gregoriano e la monumentale revisione critica della Volgata), sono tuttora chiamati dalla loro stessa vocazione e preparazione a prestare opera efficace onde gli intenti pastorali del Concilio siano perfettamente compresi e attuati, a lode di Dio e a edificazione del popolo cristiano.
Abbinato alla pietà, il lavoro. Così, coll’avvertenza ascetica di bandire l’ozio, egli assicura tutto quanto è necessario alla vita dei singoli e dell’intera comunità. Arti e mestieri si intensificano e si affinano e, valicando le mura del chiostro, risvegliano dovunque le assopite
e distratte energie di quei tempi, caratterizzati dal persistente travaglio di trovare, in mezzo alle logoranti alternative fra sprazzi di luce e addensamenti di tenebre, bagliori di civiltà e ripresa di barbarie, la pacificante fusione delle razze e delle classi, e un avvenire tranquillo, plasmato e difeso dallo Spirito dell’evangelo. L’emblema della Croce piantata sull’aratro è plastica significazione dell’opera aperta del genio pratico e creativo di Benedetto.
Mai come oggi il lavoro ha trovato tanta e ben meritata esaltazione. Abbassata la tonalità della pena, vi si accentua il criterio del perfezionamento che esso conferisce alla persona umana, e già si profila una teologia del lavoro. Studiato e seguito in tutti i campi: dal settore manuale a quello intellettuale: nelle sue innumerevoli ramificazioni, dagli apporti più umili a quelli che ci inebriano di spettacolari conquiste e di incalzanti sorprese; nei doveri che propone e nei diritti che sollecita; nel nuovo volto che dà al vivere sociale e nel timbro che imprime alle relazioni tra i popoli; il lavoro si e fatto storia, nobiltà, comando.
È degno e giusto che, contemplandone la meravigliosa ascesa, si renda merito alle menti elette e ai cuori generosi, che questi moderni splendori hanno preparati e accesi. Il nostro Santo è la, agli inizi di questo movimento di redenzione e di sublimazione, che irresistibile cammina nei secoli, e che trova nell’esempio di Cristo Gesù e nell’eterna attività di Dio la ragione ultima della sua bellezza e della sua gloria.
Il benessere economico, frutto di lavoro, è elemento primario della tranquillità e della pace. Il mondo deve diventare realmente una casa, nella quale tutti gli uomini ci sentiamo fratelli. Voci responsabili di studiosi, provvidenze di governanti, la costante dottrina della Chiesa, Madre e Maestra, più recentemente l’augusta e luminosa parola del Pellegrino Apostolico, risuona fra comune commossa aspettazione a Nazareth e a Betlemme, hanno richiamato alla generale considerazione i bisogni e le speranze, le attese e i propositi dei popoli di tutti i continenti, in particolare di quelli che, rigogliosi di fresche energie e frementi di parificazione, da poco si sono affacciati alla ribalta della piena civiltà.
Sotto la spinta di tante iniziative, facilitato l’accesso alle materie prime, adeguata al bisogno la produzione e attuata un’equa distribuzione delle ricchezze, armonizzati i rapporti fra capitale e lavoro, composte le competizioni di classe, frenate le ingordigie del superfluo, compreso e ordinato l’uso dei beni che la Provvidenza ha generosamente seminato per la felicità di tutti, nel reciproco rispetto e nel vicendevole amore, l’umiltà avrà sicuro godimento di quella pace che il Signore ha promesso in terra agli uomini di buona volontà, proclamando nei fatti la gloria del Padre che è nei cieli.
La garanzia di cotesta prosperità è la devota osservanza della volontà divina, come il Vangelo ce la propone e il Santo descrive accuratamente nel capitolo quarto della Regola, sotto il titolo di strumenti delle opere buone, vero compendio morale di ascetica cristiana.
Nell’alone di questa luce si eleva fiduciosa la nostra preghiera, affinché come quaggiù egli è stato salvatore della nostra civiltà in epoca di barbarie, precursore di pacifiche conquiste, araldo di fraterna convivenza, così San Benedetto sia vigilante e valido intercessore presso il trono di Dio – santo, forte, immortale – onde ci venga assicurato il perfetto godimento di frutti tanto salutari, “fedelmente noi militando le insegne di Cristo, vero Re e Signore”.
Montecassino, 22 marzo 1965
Carlo Card. Confalonieri