Mentre domenica 4 maggio si è celebrata l’ultima messa dei Novendiali in suffragio del Papa defunto, il Vaticano è in fermento per gli ultimi preparativi in vista del Conclave. Fervono i lavori nella Cappella Sistina, che dal 7 maggio diventerà la più solenne e suggestiva sede assembleare del mondo, pronta ad accogliere i 133 cardinali elettori. Intanto a Santa Marta, dove i cardinali prenderanno alloggio tra la sera del 6 e la mattina del 7 maggio, si stanno ultimando gli interventi di ristrutturazione, previsti in conclusione entro il 5 maggio. Nel frattempo, le Congregazioni generali raddoppiano il ritmo, ma secondo alcuni cardinali, all’uscita dalle sessioni, ancora non c’è una figura condivisa, ci serve più tempo. Intanto molti cardinali auspicano un Pontefice che unisca l’introspezione teologica di Benedetto XVI e l’apertura pastorale di Papa Francesco.
Nei due giorni che ci separano dal conclave, rileggiamo in sintesi i temi principali trattati delle omelie dei porporati durante i novendiali. Le omelie dei cardinali durante i Novendiali per Papa Francesco tracciano un percorso di riflessione profonda e urgente per la Chiesa. Il cardinale Pietro Parolin ha ricordato la misericordia come il cuore del pontificato di Francesco, un principio che deve guidare la Chiesa nel futuro, riformando le relazioni e le comunità. Il cardinale Baldassare Reina ha esortato a non piegare il Vangelo a compromessi di potere, ma a perseguire una radicale fedeltà alla missione evangelica, rischiando tutto per seminare la speranza. Il cardinale Mauro Gambetti ha sottolineato l’importanza dell’incontro con l’umano prima della dottrina, promuovendo una Chiesa più relazionale e accogliente. Il cardinale Leonardo Sandri ha richiamato il mandato petrino e l’umiltà del servizio come valore fondante del ministero papale. Il cardinale Víctor Manuel Fernández ha legato la missione di Francesco alla dignità del lavoro come risposta concreta all’amore di Dio, mentre il cardinale Claudio Gugerotti ha evidenziato l’importanza di accogliere la diversità delle Chiese Orientali e la loro ricchezza spirituale. Infine, il cardinale Ángel Fernández Artime ha invitato i consacrati a essere profeti che risvegliano il mondo.
Il cardinale Pietro Parolin, l’eredità viva di Francesco: misericordia, sfide globali e speranza pasquale
Il cardinale Pietro Parolin ha presieduto la Celebrazione Eucaristica del secondo giorno dei Novendiali per Papa Francesco, intrecciando il lutto per la sua scomparsa con l’annuncio luminoso della Pasqua. La Chiesa, ha esordito Parolin, si ritrova oggi come gli apostoli nel Cenacolo: turbata, impaurita, smarrita dopo aver perso il suo pastore. Ma è proprio in questa oscurità che la luce della risurrezione irrompe, ed è in questa luce che si comprende fino in fondo l’eredità spirituale e pastorale di Francesco. Il cardinale ha richiamato le parole dell’Evangelii Gaudium, prima esortazione del pontificato, come chiave ermeneutica di tutto il suo magistero: “Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”. Parolin ha indicato nella misericordia il fulcro teologico e pastorale dell’intera missione di Francesco: non un’idea astratta, ma “il nome stesso di Dio”, che “nessuno può limitare”. È una misericordia che si è fatta prassi ecclesiale, che ha orientato ogni gesto del Papa, ogni parola, ogni apertura. Ha ricordato che “Papa Francesco è stato testimone luminoso di una Chiesa che si china con tenerezza verso chi è ferito”, annunciando un Vangelo che libera “dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore”. Ma l’omelia non si è limitata alla memoria: ha tracciato una direzione per il futuro. Rivolgendosi ai giovani presenti, Parolin ha colto l’occasione per evocare una delle grandi sfide su cui Francesco si era speso con forza profetica: quella posta dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale. “Non dimenticate mai di alimentare la vostra vita con la speranza che ha il volto di Cristo”, ha esortato, perché “nulla sarà troppo grande o troppo impegnativo con Lui”. Infine, Parolin ha lanciato un appello a non lasciare che l’affetto per Francesco si dissolva nel sentimentalismo: “La sua eredità dobbiamo accoglierla e farla diventare vita vissuta”. Questo significa riformare relazioni, comunità, stili di vita alla luce della misericordia: “Solo la misericordia guarisce e crea un mondo nuovo, spegnendo i fuochi dell’odio e della violenza”.
Il cardinale Baldo Reina, non piegare il vangelo a tragici compromessi
Nel terzo giorno dei Novendiali per Papa Francesco, il cardinale Baldassare Reina, vicario per la diocesi di Roma ha presiedendo la Celebrazione Eucaristica in suffragio del Pontefice. Roma piange il suo vescovo, ma la riflessione del cardinale va oltre il tributo. È uno sguardo coraggioso verso le sfide della Chiesa di oggi, che si scopre “pecore senza pastore” in un tempo in cui l’umanità è affamata di senso, ferita, confusa. L’omelia si fa denuncia implicita di una Chiesa tentata dal ritorno alle “alleanze di potere”, da “tattiche e prudenze”, quando invece è chiamata ad “entrare nel sogno di Dio”, a osare “una disposizione radicale” al cambiamento. In questo scenario, Reina evidenzia l’urgenza di un successore di Pietro che abbia “lo sguardo di Gesù”, che sappia vedere i volti della gente con compassione profonda, senza paura di perdere prestigio, visibilità o struttura. Un pastore che non pieghi il Vangelo a “tragici compromessi”, ma che, come Francesco, non abbia temuto di attraversare la storia con gesti semplici e parole disarmate. Il cuore del messaggio è nel richiamo alla fedeltà al chicco di grano: un’immagine pasquale, ma anche profondamente ecclesiale. È l’idea di una semina nella fatica, di un atto estremo di fede come quello del contadino che, in tempo di carestia, getta l’ultima semente con le lacrime agli occhi. Così la Chiesa è oggi chiamata a rischiare, a non trattenere nulla, a dare tutto di sé per generare una nuova stagione evangelica.Infine, l’omaggio alla “barca di Pietro” che Francesco ha guidato come “pastore universale”. I suoi processi di riforma – ha detto Reina – non devono restare sospesi nel vuoto o manipolati da logiche ideologiche. Il vero compito che ci attende è discernere e custodire ciò che è stato avviato, per continuare a preparare “la Sposa per lo Sposo”, senza nostalgia paralizzante né miopie clericali.
Il cardinale Mauro Gambetti, apertura all’umano senza riserve
Nel quarto giorno dei Novendiali per Papa Francesco, l’omelia del cardinale Mauro Gambetti si è stagliata come una bussola per il futuro della Chiesa. Al centro della meditazione di Gambetti c’è la grande parabola del giudizio finale: un Cristo giudice che separa non tanto i credenti dai non credenti, ma chi ha amato concretamente da chi ha voltato le spalle all’umanità ferita: “non è la professione di fede, la conoscenza teologica o la prassi sacramentale a garantire la partecipazione alla gioia di Dio, ma il coinvolgimento qualitativo e quantitativo nella vicenda umana dei fratelli più piccoli”. Con forza, Gambetti ha attualizzato la parabola nel tempo presente: “A livello personale e istituzionale, quale stile incarniamo: quello della pecora mite o del capro arrogante?” Una domanda diretta, che suona come esame di coscienza per una Chiesa spesso tentata dal potere e dalla chiusura. Il cardinale ha evocato il commosso congedo poetico di Edith Bruck al pontefice defunto, che lo ha ricordato come “un Uomo che amava, si commuoveva, abbracciava, spargeva calore”. Un’eredità spirituale che non può finire con la sua morte. Gambetti ha quindi rilanciato l’intuizione chiave del pontificato: una Chiesa casa per tutti tutti tutti, come amava dire Francesco. Aprire le porte, accogliere senza preferenze, incontrare l’umano prima di annunciarne la redenzione. In un’epoca globalizzata e secolarizzata – ha ammonito il cardinale – l’evangelizzazione non passa prima dalla dottrina, ma dalla prossimità, dalla gratuità e dall’ascolto delle ferite del mondo. Una Chiesa meno clericale e più relazionale, meno preoccupata di difendere sé stessa e più desiderosa di annunciare, con la vita, il Vangelo della tenerezza.
Il cardinale Leonardo Sandri, lo spirito di servizio del Servus servorum Dei
Il cardinale Leonardo Sandri ha celebrato il quinto giorno dei Novendiali per Papa Francesco con un’omelia densa di fede pasquale: il canto dell’Alleluia che, anche nel lutto, proclama la vittoria del Risorto, e illumina la morte come un’ultima notte da attraversare con Cristo. Sandri ha legato l’esperienza della morte di Papa Francesco a quella del Redentore, leggendo il suo trapasso come un passaggio nel Mar Rosso, nella notte “che risplende come il giorno”. Ha richiamato il mandato petrino — “Conferma i tuoi fratelli” — come chiave di lettura del pontificato. Nel rivolgersi al Collegio cardinalizio, il vice decano ha evocato la Chiesa universale: dai martiri dimenticati del Maghreb fino ai confini delle isole del Pacifico, richiamando lo spirito di servizio che il titolo Servus servorum Dei esige, con accenti fortemente evangelici. Ha lodato l’umiltà concreta di Francesco, inginocchiato davanti ai leader del Sud Sudan come già Paolo VI davanti al Metropolita Melitone. Al centro dell’omelia, una profezia: quella di Gioele, cara al defunto Pontefice, in cui giovani e anziani si incontrano per sognare insieme la Chiesa del domani. Un invito al Collegio cardinalizio, fatto di età diverse, a portare avanti il sogno di Francesco con “rinnovato entusiasmo”.
Il cardinale Víctor Manuel Fernández, lavoro, dignità e Vangelo
Nel cuore della Basilica Vaticana, nel sesto giorno dei Novendiali, ha presieduto la celebrazione il cardinale Víctor Manuel Fernández, suo teologo di fiducia, già Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede. “Papa Francesco è di Cristo, appartiene a Lui” — ha esordito il cardinale — “e ora che ha lasciato questa terra è pienamente di Cristo”. In queste parole echeggia la certezza pasquale che ha sostenuto l’intero pontificato bergogliano: un cammino ecclesiale radicato nella speranza, nella carne viva del Vangelo, nella misericordia come stile e nella tenerezza come forza. La provvidenza ha voluto che la Messa cadesse proprio il Primo Maggio, festa di san Giuseppe lavoratore. Non un dettaglio. “Il lavoro”, ha ricordato Fernández, “stava tanto a cuore a Papa Francesco”, che ne parlava come via privilegiata di maturazione umana, espressione della dignità e della creatività dell’essere umano. Il Papa che difese il povero e l’ultimo ha lanciato un grido profetico contro la falsa meritocrazia, che scambia i privilegi ereditati per meriti personali e condanna i deboli alla marginalità. “Non c’è povertà peggiore di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro”, diceva Francesco. E la memoria corre alle sue parole pronunciate a Genova: “Attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Quando ci sono problemi col lavoro, è la democrazia che entra in crisi”. La vera equità, spiegava il Pontefice, non consiste nel dare elemosine, ma nell’offrire opportunità, nel promuovere la persona affinché possa guadagnarsi il pane con i doni che Dio le ha dato. Il cardinale Fernández ha offerto anche uno scorcio personale e struggente su Bergoglio come “lavoratore instancabile”, profondamente impegnato fino all’ultimo respiro nella missione affidatagli. “Mai un giorno di vacanza, mai un’uscita a teatro, mai una sera sprecata. Viveva il lavoro come risposta d’amore a Dio”, ha detto il cardinale. Così, la fatica quotidiana diventava per Francesco una forma di liturgia, un prolungamento eucaristico del suo ministero: “Il suo lavoro era la sua gioia, il suo riposo, il suo alimento”. In un passaggio emblematico, Fernández ha ricordato il gesto quasi eroico di Francesco che, malato e provato, ha voluto visitare un carcere nei suoi ultimi giorni. Un gesto che, oggi, si trasfigura come parabola del Vangelo vissuto fino in fondo: “Nessuno di noi vive per se stesso”. Non è mancata, nell’omelia, una parola rivolta anche alla Curia Romana, presente in massa alla celebrazione: “Anche noi siamo lavoratori. Non funzionari, ma servitori”. Una Chiesa che si concepisce non come potere, ma come servizio: ecco una delle eredità più profonde di Francesco, che ha provato a riformare strutture, cuori e sguardi. La sfida, oggi, sarà quella di non relegare tutto questo a un’eredità museale, ma di renderlo fermento attivo per il presente.
Il cardinale Claudio Gugerotti e la voce mistica delle Chiese d’Oriente
A presiedere la liturgia del settimo giorno dei Novendiali è stato il cardinale Claudio Gugerotti, già prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali, che ha offerto un’omelia densa di spiritualità e gratitudine, incastonando nella preghiera per il Pontefice defunto un elogio vivido e profetico dell’Oriente cristiano. Il cardinale ha tessuto una meditazione profonda sulla risurrezione come dono dello Spirito, e su quel grido inesprimibile che sale dal cuore dell’umanità ferita e trova nella liturgia orientale la sua voce più autentica. Qui la teologia si fa contemplazione del mistero, apofasi, silenzio carico di significato. Ed è proprio in questa ineffabilità — tanto cara alla sensibilità bizantina, siriaca e armena — che la Chiesa trova uno dei suoi polmoni spirituali. Con parole toccanti, Gugerotti ha ringraziato i figli e le figlie delle Chiese Orientali per la loro testimonianza di fede, spesso vissuta nel dolore, nella diaspora, nella persecuzione. Eppure, ha detto, “non sono ridotti nella fede”: la loro presenza oggi “arricchisce la cattolicità della Chiesa” con lingue, riti e sensibilità che affondano le radici nei primordi del cristianesimo — alcuni parlano ancora l’aramaico, la lingua di Cristo. Il porporato ha ricordato come queste Chiese, unite a Roma ma spesso incomprese, abbiano versato sangue per la comunione con Pietro, senza rinunciare alla loro specificità liturgica e teologica. Francesco, ha affermato Gugerotti, ha amato questa diversità e ha lavorato perché fosse accolta e custodita. Ora che molti cristiani orientali sono costretti a lasciare le loro terre — spesso proprio quelle del Vangelo — la Chiesa latina ha il dovere morale di accoglierli, non solo come rifugiati, ma come portatori di una ricchezza insostituibile. In un crescendo di intensità, l’omelia ha fatto risuonare parole dei grandi mistici d’Oriente: Sant’Atanasio e la “divinizzazione” dell’uomo, San Gregorio di Narek e il fuoco purificatore della misericordia, fino all’invocazione struggente di San Simeone il Nuovo Teologo, cantore del Dio che viene nella solitudine e trasfigura l’anima assetata. Nel clima raccolto di attesa per il prossimo conclave, Gugerotti ha suggerito che lo Spirito che guida la Chiesa potrebbe farsi udire proprio nei “gemiti inesprimibili” custoditi dalla spiritualità orientale. Non una dottrina da possedere, ma un Mistero da contemplare. Il saluto finale è stato un grido di speranza e riconoscenza: “Cristo è risorto dai morti, calpestando con la morte la morte”, come canta senza tregua la liturgia bizantina. Un canto che Papa Francesco avrebbe amato ascoltare ancora una volta, come eco viva di quella Chiesa che, nella varietà, custodisce l’unità dello Spirito.
Il cardinale Ángel Fernández Artime: svegliare il mondo, la nota della vita consacrata è la profezia
L’ottava celebrazione dei Novendiali in suffragio di Papa è stata presieduta dal cardinale Ángel Fernández Artime, salesiano e già pro-prefetto per la Vita Consacrata. Il porporato ha esordito richiamando sant’Alfonso Maria de’ Liguori: pregare per i defunti è la più grande opera di carità. Da questo gesto di amore nasce la commemorazione liturgica per Francesco, tanto amato dal Popolo di Dio e, in particolare, dalle consacrate e dai consacrati, che per lui hanno incessantemente pregato e con cui egli ha intrattenuto un rapporto profondo e riconoscente. Sul filo delle letture pasquali, il cardinale ha ricordato come la testimonianza coraggiosa degli Apostoli – guidati da Pietro – si radicasse in un’esperienza viva e personale del Cristo risorto. Proprio da qui nasce, secondo Artime, la chiamata per i consacrati a essere “sentinelle” nella notte, “profeti” in un mondo segnato dall’oblio di Dio. “Papa Francesco diceva nell’Anno della Vita Consacrata: Mi attendo che svegliate il mondo, perché la nota che caratterizza la vita consacrata è la profezia. E ci chiedeva di essere testimoni del Signore come Pietro e gli Apostoli, anche di fronte all’incomprensione del Sinedrio di un tempo o degli areopaghi senza Dio di oggi. Ci domandava di essere come la sentinella che veglia durante la notte e sa quando arriva l’aurora”. Il cardinale Artime ha quindi delineato con forza il compito dei consacrati oggi: “testimoniare che solo Dio dà pienezza all’esistenza umana”, offrendo una vita segnata dalla dedizione radicale e dalla carità verso i poveri, i piccoli, gli scartati.
Il cardinale Dominique Mamberti, un Papa contemplativo
Nella solenne cornice della Basilica di San Pietro, la Cappella Papale si è riunita per la Santa Messa nell’ultimo gionro dei Novendiali, presieduta dal cardinale Dominique Mamberti, Protodiacono del Collegio Cardinalizio. Nel giorno in cui la liturgia propone il Vangelo della terza domenica di Pasqua, con la celebre scena del dialogo tra Gesù risorto e Pietro sul lago di Tiberiade, il cardinale Mamberti ha voluto intrecciare quel “Seguimi” rivolto al primo degli Apostoli con l’intera missione di Jorge Mario Bergoglio. “Abbiamo tutti ammirato – ha detto – quanto Papa Francesco, animato dall’amore del Signore e portato dalla Sua grazia, sia stato fedele alla sua Missione fino all’estremo consumo delle sue forze”. Il porporato ha richiamato con finezza spirituale la triplice domanda d’amore rivolta da Cristo a Pietro, sottolineando, con le parole di Benedetto XVI, che il Signore si è chinato sulla debolezza umana di Pietro – così come fa con ognuno di noi – accettando il suo “voler bene” come amore possibile. In questa prospettiva, la fragilità si è trasformata in forza e l’obbedienza a Dio è diventata il principio guida dell’intero pontificato di Francesco: una voce profetica che ha ammonito i potenti e annunciato la gioia del Vangelo. Accanto alla fermezza evangelica, il cardinale Mamberti ha ricordato la dimensione contemplativa del Papa argentino, forgiata dalla spiritualità ignaziana e nutrita dalla preghiera silenziosa e dall’adorazione, “questa capacità che ci dà l’adorazione”, come lo stesso Francesco amava dire. È in quest’orizzonte che si colloca il suo continuo rivolgersi a Maria, in particolare alla Salus Populi Romani, davanti alla quale si è recato per ben 126 volte. “Ora che riposa vicino all’amata Immagine – ha concluso Mamberti – lo affidiamo con gratitudine e fiducia all’intercessione della Madre del Signore”.
L’eredità di Papa Francesco, in sintesi, è un appello a una Chiesa che vive la misericordia, che non teme il rischio del cambiamento, che accoglie l’umano e che, nel servizio e nella testimonianza, è chiamata a rispondere alla sofferenza del mondo con l’annuncio del Vangelo. Questo quadro offre una guida fondamentale per scegliere un successore di Pietro che incarni questi valori.