Sei mai stato davvero arrabbiato con qualcuno? Così arrabbiato da giustificarti un gesto violento? In alcune occasioni ed in certe circostanze gruppi di persone hanno utilizzato la violenza per raggiungere i loro obiettivi. Mohansa Gandhi (1869-1948), insegnava che il modo migliore di raggiungere la giustizia sociale fosse attraverso l’impiego di strategie non-violente. Ci sono momenti della vita in cui sostenere e difendere ciò che si ritiene essere vero, come capita spesso a molti filosofi ma non solo, richiede un gesto estremo e vitale di coraggio. Considera attentamente le situazioni descritte in ognuna delle seguenti tre dichiarazioni. Poi, prima di parlare di Gandhi, indica se sei d’accordo o meno con quel punto di vista inserendo “vero” o “falso” negli appositi spazi:
- Se sei stato costantemente molestato e infastidito dal bullo della classe, sei giustificato nella ritorsione e nella vendetta contro di lui ______________________________________
- Se appartieni ad un gruppo di persone che, per qualche ragione, sono sempre state trattate ingiustamente, tu e il tuo gruppo siete giustificati ad usare violenza in modo da farvi giustizia._________________________________________________________
- Se la tua nazione è stata attaccata da un’altra nazione, sei giustificato nell’uso della violenza per difendere te e il tuo Paese._____________________________________
Usciamo dal mondo e rientriamo con un altro sguardo. Nel nostro codice culturale, molto più in profondità che le scansioni occidentali della Storia (antica, medievale, moderna e contemporanea) le quali appartengono solo a noi e non ad altre culture, ebbene molto più in profondità che questo, la cultura occidentale ha sempre presentato un intreccio di quattro logiche costitutive:
- L’IDENTITA’ ESCLUSIVA, in primis, per cui intendiamo che l’orologio è l’orologio, il tavolo il tavolo, etc.; ognuno è ogni cosa come identità a sé stante. Il nostro primo principio logico è il principio dell’identità intesa come esclusiva, che vuol dire che noi non concepiamo la relazione come dentro l’identità. Per un figlio dell’Occidente la relazione è un concetto esterno tanto che abbiamo diffuso nel mondo l’idea che la relazione naturale sia la competizione, la rivalità. Prima delle guerre belliche noi facciamo le guerre ideologiche, economiche Senza andare a prendere persone da altri continenti, abbiamo visto che bastano piccole differenze interne ad una stessa cultura, ad una stessa religione, regione, provincia, città, condominio o famiglia, per provocare un conflitto. Si ripete l’antico mito dentro una tradizione profondissima: la rivalità fratricida come in Caino e Abele. Noi abbiamo concepito la vita , il rapporto, le persone, con il criterio dell’identità esclusiva. Pensiamo che ancora chiamiamo la natura con il termine “ambiente”, il che vuol dire che la natura è la cornice, il contesto, e non sappiamo vedere che siamo anche natura, che la natura è costitutiva di noi; ed è per questo che abbiamo costruito un modello di civiltà che la distrugge e lo chiama crescita, progresso, mentre restiamo impossibilitati a imprimere una direzione di tutela della natura che vuol dire anche di auto-tutela. Tutto ciò perché dentro di noi partiamo da tale idea: prima l’identità, poi la relazione. Nella vita invece è il contrario, ovvero la relazione è sempre fondante, universale, come tra madre e figlio, mentre l’identità è successiva, in divenire, relativa, approssimativa. Esattamente il contrario.
- IL POTERE. Per non screditare del tutto questa parola a volte ce la caviamo con la banalità del detto: “il potere non è cattivo in sé ma dipende dall’uso che se ne fa”. Per Gandhi il mezzo in realtà è sempre già gravido del fine. Una carezza è una carezza, una pistola è una pistola, non è vero che sono legati all’uso che ne facciamo. Il potere per Gandhi non è un mezzo. Il potere è un circuito, è una grammatica, è un dispositivo che ingloba; posso giocare il ruolo del dominatore o del dominato, ma in ogni caso il potere crea dipendenza, sottomette le persone, se non si è in grado di convertirlo in servizio. Qui si gioca il confine e l’autentica democrazia. Che tu sia sindaco, imprenditore, presidente o rettore, se è potere, allora si è in un meccanismo che alla fine disumanizza e domina anche chi crede di gestirlo. Ecco, la nostra è una cultura del potere, ma che non ha usato le categorie di Aristotele o della filosofia medievale di potenza passiva, ricettività, fecondità. San Tommaso d’Aquino dice che la potenza passiva non è il potere, l’imposizione, ma è la capacità femminile di ricevere la propria perfezione; come dire, la pianta è sensibile all’acqua e alla luce, e quella è una forma di potenza nel senso della ricettività e della fecondità, cioè una potenza biofila e non necrofila. Invece tutto quello che è potere, potremmo aggiungere, potere al maschile, è imposizione, è autoreferenziale, è disgregante. C’è una differenza profondissima tra potere e governo, e non è una finezza filosofica. Il potere è autoreferenziale e non dà risposte ai problemi, mentre il governo, non sulle persone, ma dei problemi, dà risposte. Noi occidentali veniamo da una cultura dell’identità esclusiva e del potere nel senso di imposizione, tanto che nessuno si sogna di metterlo in discussione. Quello che spesso non è stato visto di Gandhi, è che Gandhi non contesta la violenza come principio e basta, ma contesta la radice della violenza che è il principio di potere. Quindi la via della non violenza apre un’alternativa all’efficacia necrofila del potere. Erich Fromm, quando scrisse Anatomia della distruttività umana, giustamente diceva che nell’universo esistono due tipi di efficacia. Non si può confondere l’efficacia distruttiva con l’efficacia di generare una vita. Una donna che partorisce è una sorta di cannonata, di “bombardamento”, eppure possiamo usare questa stessa parola, “bombardamento” a proposito di un attacco bellico. Tutti sappiamo che esistono due forze: una disgregante, autoreferenziale, che è legata al potere, e un’altra forza che è invece biofila, amante della vita, e allora si spalanca qui davanti a noi un altro vocabolario dove troviamo parole come responsabilità, servizio, prendersi cura, autorità (dalla radice del verbo latino augēre che significa far crescere, non quindi nel senso di chi comanda su altri), e anche la parola governo, governo dei problemi e non sulle persone.
- LA PROPRIETÀ. Principio che stabilizza il potere di chi ha un ruolo egemone.
- IL SACRIFICIO, la mitologia che ci siano delle distruzioni fondatrici. Quarta e ultima categoria occidentale sulla quale abbiamo costruito la nostra cultura, il sacrificio è sempre distruzione di vittime. Per questo abbiamo messo in piedi una religione delsacrificio, un’ economia del sacrificio, una pedagogia del sacrificio, che vuol dire che per noi la distruzione deve essere normale.
E allora per comprendere Gandhi, quando dicevo all’inizio che occorre uscire dal mondo per rientrare in esso con un altro sguardo, intendo che a partire dalla critica a queste quattro categorie concettuali assisteremo ora al prefigurarsi di una conversione di paradigma di civiltà, in quanto Gandhi sostituisce le quattro categorie necrofile sopra citate con altre quattro categorie che profumano di vita:
- L’IDENTITÀ RELAZIONALE al posto dell’identità esclusiva. La relazione diventa costitutiva dell’identità di ciascuno di noi. Non è un’astrazione. Pensando ai nostri genitori che, anche se scomparsi da tanti anni, non sono certamente annullati, che si creda o no in una vita ultraterrena, essi restano qualcosa che ci portiamo dentro. In certa misura, che ci piaccia o no, noi siamo anche i nostri genitori. Gandhi intende con ciò che le relazioni profonde ce le portiamo dentro, quindi non esiste l’identità senza la relazione.
- IL SERVIZIO al posto della grammatica del potere. L’affidamento fiduciario. Trusteeship la definisce Gandhi. L’affidamento fiduciario come strumento della dignità umana, il che vuol dire che il tuo lavoro deve essere letto con la lente del servizio. Fai il pane? Devi fare bene il pane. Fai l’insegnante? Devi fare bene l’insegnante. Ma non si parla di meritocrazia, con il nostro lessico competitivo, perché noi con meritocrazia in genere intendiamo “me lo merito io”, “se sono davanti a te è perché me lo meritavo più di te”. Gandhi parla di responsabilità. Mi metto al servizio della comunità attraverso i miei talenti, impegnandomi in prima persona, prendendomi cura degli altri secondo le mie capacità.
- LA CONDIVISIONE al posto della proprietà. I beni sono anzitutto beni comuni, e non devono esistere per escludere le persone. Condivisione non significa espropriazione di quello che ho, in quanto Gandhi non credeva in un comunismo, ma che innanzitutto i beni sono sempre beni comuni, dati all’umanità senza alcun merito, come l’aria o l’acqua o il corpo umano, e non si accettano privatizzazioni e lucri individuali sopra la gestione di tali beni. La condivisione è il fondamento della vita economica dei popoli.
- IL DONO, come atto di vita, al posto del sacrificio. La parola dono dice atto di vita e basta. Il che significa che quello che io condivido, quello che io do, quello che io offro, non è per me una perdita ma è qualcosa che nessuno mi toglie più se io lo do da me stesso. Noi abbiamo veramente quello che diamo, non quello che tratteniamo.
Se proviamo a metterci dentro questo codice culturale di identità relazionale, di servizio, di condivisione, di idea di una capacità di dono che non passi per la perdita intesa come un lutto, come una distruzione, ma come un accrescere vita, allora la proposta Gandhiana diventa comprensibile. Gandhi non era un fondamentalista né un integralista, ma non ha voluto accettare la separazione tra vita politica e vita spirituale con le sue motivazioni profonde. Così nella prima metà del Novecento ha generato un movimento che vuole tradurre su scala politica e che ricade sotto il nome di “non-violenza”, in un’India sotto il colonialismo, l’imperialismo Inglese, in un’India che era una galassia di etnie, di religioni, di classi sociali e di conflitti. Ultimo posto della terra forse dove erano possibili vie di risoluzione pacifiche. Gandhi apre questo esperimento della non-violenza, amando tantissimo la parola esperimento, perché fuori da un approccio ideologico (ovvero coltivando un’idea in testa di non violenza per poi applicarla nella realtà). Gandhi infatti, con la propria vita, vive la non-violenza, si apre a questa relazione con una forza biofila, che lui chiama verità, Dio, dopo di che, per passione e fiducia verso l’umanità, cerca di costruire questo movimento politico che non fosse, attenti bene, un movimento di conquista del potere. Gandhi infatti lo dice chiaramente: la non violenza e la politica di potere sono incompatibili. Ma tutto questo deve essere la scoperta di un governo collettivo del Paese a partire da quello che lui chiama l’autogoverno, cioè vuol dire che se non sono in grado di governare me stesso, e sono preda di passioni, preda di avidità, di pressioni esterne, come faccio ad essere un attore della democrazia in grado di governare i problemi collettivi? Se spargo rancore e aggressioni verbali attraverso i social o nello sport o al bar o nel consiglio comunale della mia città o in campagna elettorale, se non so governare me stesso, come saprò prendermi cura delle persone? Gandhi invece vuole generare un movimento politico che sia capace di governo dei problemi, ma che finalmente impari a prendere distanza dall’aggressività, dalla distruttività. Tutto questo però è vero perché in lui si è verificata una grande apertura religiosa, alla presenza di un Dio che egli rilegge non convenzionalmente, non tradizionalmente, e che l’ha portato a coltivare un enorme fede nel potenziale dell’umanità. Quindi la vera energia, forza efficace, che non ha nulla da invidiare alla forza disgregatrice del potere, è la nostra umanità. Quando mettiamo in campo sentimenti, pensiero, coscienza, anima (ovvero la libertà profonda di una persona), il corpo, il lavoro, ecco allora che possiamo diventare veramente del mondo i custodi, e non i distruttori. Possiamo diventare coloro che armonizzano il mondo, e non i padroni che lo distruggono.
Gandhi è stato assassinato nel 1948 ma resta comunque un pensatore attivo che retroattivamente o anticipatamente ancora vuole indicarci una strada metodologicamente percorribile, politicamente, filosoficamente ed esistenzialmente, per le nostre vite e per le nostre democrazie.