Giovedì fra l’Ottava di Pasqua
Sospetti, dubbi e insinuazioni: Gesù li aveva notati nei suoi interlocutori, ma constatare che questi stessi sospetti trovano spazio nel cuore dei discepoli certamente non dovette fargli piacere. Il suo disappunto si fa più serio nel costatare che i discepoli non riescono a fugare il dubbio di essere di fronte a un fantasma. E anche oggi chi crede nella resurrezione deve spesso rispondere a obiezioni piene di ironia. Luca risponde direttamente alla domanda: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho“. Forse l’incredulità dei discepoli è quella di chi è messo di fronte a una cosa talmente desiderata e voluta che è troppo bella per essere creduta. Gesù mangia davanti a loro, come prima! Dunque i discepoli capiscono che è un vero corpo, che ha carne e ossa, ma è anche il corpo di un risuscitato che non muore più e che non avrebbe bisogno di nutrirsi. Ma c’è ancora di più: sottolineare che nella convivialità Gesù si rivela e si fa riconoscere. Anche se noi non vediamo più Gesù, lo riconosciamo come colui che spezza il pane, e allo stesso tempo quando ci lasciamo ammaestrare dalle Scritture. Sono due strade che corrispondono a due modi di incontrare il Signore, ma si richiamano a vicenda. Non basta essere dotti nelle Scritture se non si arriva a dare la testimonianza della vita; d’altra parte la testimonianza di vita ha bisogno di essere garantita nella sua autenticità grazie alla comprensione delle Scritture.
La resurrezione di Gesù e la nostra sono centrali per la nostra fede: la nostra attesa è davvero che Cristo risorto ci innalzi, con lui, nella vita eterna con Dio? È solo dalla prospettiva della resurrezione di Gesù e nostra che la vita prende il suo pieno significato. Come discepoli di Gesù possiamo e dobbiamo guardare molto al di là dei limiti della nostra breve vita sulla terra e confidare che nulla di quello che viviamo oggi nel nostro corpo andrà perduto.
Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe, XIII, 27
La santa Chiesa sopporta le avversità di questa vita affinché la grazia divina la conduca ai premi eterni. Essa disprezza la morte della carne perché tiene fisso lo sguardo alla gloria della risurrezione. I mali che soffre sono passeggeri, i beni che attende sono eterni.
In ordine a questi beni, non nutre alcun dubbio perché possiede già come fedele testimonianza la gloria del suo Redentore.
Essa vede in spirito la di lui risurrezione e vigorosamente si rafforza nella speranza. Essa nutre la sicura speranza che ciò che vede già compiuto nel suo capo, si realizzerà anche nel corpo di lui. Non deve dubitare della propria risurrezione perché possiede già in cielo come testimone fedele colui che è risuscitato dai morti. Perciò il popolo credente quando soffre avversità, quando è duramente provato dalle tribolazioni, innalzi lo spirito alla speranza della gloria futura e, confidando nella risurrezione del suo redentore, dica: «Ecco, fin d’ora il mio testimone è nei cieli, il mio difensore è lassù» (Gb 16,19)