Quando nel 2018 il cardinale Pietro Parolin firmò l’accordo provvisorio con Pechino sulla nomina dei vescovi, il Vaticano accettò di scommettere sulla Cina. Una scommessa geopolitica e teologica, che oggi si rivela il cardine di un pontificato deciso a riformare la Chiesa anche nella sua struttura più profonda: quella del conclave. Papa Francesco ha infatti disegnato, passo dopo passo, un Sacro Collegio che riflette la sua visione di Chiesa: decentrata, periferica, globale. E in particolare, asiatica.
Mentre si avvicina il tempo del prossimo conclave, nel Collegio cardinalizio si staglia l’ombra lunga di un pontificato che ha mutato radicalmente la geografia del potere ecclesiastico. Francesco, con metodo e visione, ha ridisegnato la mappa della Chiesa cattolica, orientandola sempre più verso sud e verso est: verso l’Asia. Un continente che rappresenta il 60% della popolazione mondiale ma solo il 3% dei cattolici. Eppure oggi, grazie a lui, il 17% dei cardinali elettori proviene dall’Asia: una sovra-rappresentazione mai vista, che non è frutto del caso.
I cattolici nella Cina di Xi Jinping
Il cattolicesimo nella Cina di Xi Jinping, secondo l’antropologo Michel Chambon, non è un residuo marginale né un’utopia missionaria, ma un fuoco vivo che arde sotto la cenere del controllo statale. Il Partito Comunista non è cieco né ingenuo. Ogni gruppo religioso, come anche sportivo o culturale, è chiamato a dimostrare la propria lealtà. I cristiani non fanno eccezione. In un Paese dove la fede è sorvegliata, ma non spenta, i cattolici cinesi vivono una spiritualità intensa e culturalmente radicata, stretti tra la lealtà a Roma e la fedeltà obbligatoria al Partito Comunista. L’accordo del 2018 tra Santa Sede e Pechino sulla nomina dei vescovi ha prodotto frutti visibili e ferite aperte, sanando alcune fratture e creando nuove tensioni tra le comunità ufficiali e sotterranee. La Santa Sede, pur di mantenere un canale aperto con Pechino, accetta un modello di compromesso graduale: per ogni nomina episcopale, è spesso il governo cinese a proporre il nome, mentre Roma indaga e approva o respinge. Un sistema non privo di limiti, ma che consente un lento progresso.
Mentre il regime non mira a sradicare il cristianesimo ma a incanalarlo e addomesticarlo, la diplomazia vaticana procede con passi piccoli ma tenaci: significativo è il rafforzamento della presenza vaticana a Hong Kong. Da un rappresentante isolato con una segretaria part-time, si è passati a una vera équipe diplomatica, ben strutturata. Roma è consapevole che nella Cina di oggi il Vangelo non può imporsi, ma può ancora risuonare. Il boom delle conversioni negli anni ’80 e ’90 ha subito un rallentamento marcato negli ultimi quindici anni. Oggi, la religione — non solo cristiana, ma anche buddista e taoista — vive un ritorno diffuso ma sorvegliato, in un Paese dove la spiritualità si intreccia con la politica come in una danza sospetta. La Chiesa cammina così sul crinale stretto di una fede che resiste senza sfidare, che si adatta senza rinunciare, che sopravvive non per forza, ma per fedeltà.
La strategia asiatica di Francesco
È stato lo stesso Bergoglio a parlare di un “buco storico” nella presenza della Chiesa in Asia. Benedetto XVI, ad esempio, non vi mise mai piede. Francesco ha scelto di colmare quella distanza non solo con i viaggi – memorabili quelli in Giappone, Thailandia, Mongolia – ma soprattutto con le nomine cardinalizie. Ha pescato in diocesi quasi sconosciute a Roma, ma strategiche a livello globale: Brunei, Bangladesh, Malesia, Myanmar, Laos, Timor Est, la vietnamita Hanoi. Ha dato la porpora a pastori di città costiere o di arcipelaghi sperduti. Scelte che indicano una rotta: dare voce a porzioni di mondo prima marginali ma oggi decisive.
Le conferenze episcopali come chiave del potere
Dietro ogni nome, una logica: Papa Francesco ha scardinato la prassi per cui la porpora era riservata agli arcivescovi delle grandi sedi storiche. Ha preferito scegliere cardinali per il loro ruolo nelle conferenze episcopali. È il caso di José Luis Lacunza del Panama, creato cardinale non come arcivescovo della capitale, ma in quanto presidente della conferenza episcopale. La medesima dinamica si è replicata in Asia, Africa e America Latina: le conferenze diventano così i nuovi centri decisionali della Chiesa. Non è più Roma a inviare segnali al mondo, ma il mondo a irradiare voci che giungono a Roma.
Un conclave a geometrie variabili
Per questo, secondo molti osservatori, come Piero Schiavazzi, si parla oggi di un “conclave a geometrie variabili”: una sorta di proporzionale ecclesiastico pensato per marginalizzare il vecchio blocco eurocentrico e rafforzare la presenza delle Chiese locali. È la riforma silenziosa ma radicale di Francesco: non solo decentramento amministrativo, ma rappresentanza reale. Il suo conclave sarà forse il primo in cui i cardinali non si limiteranno a eleggere, ma rappresenteranno davvero il volto molteplice della Chiesa globale. Alcuni si sono spinti, in prospettiva, a pensare a un futuro modello in cui saranno i presidenti delle conferenze episcopali ad avere un ruolo nell’elezione papale: una sorta di “sinodo permanente” che superi eventuali logiche di corte.
Trump e il timore di un’alleanza Cina-Chiesa
Ma questa rivoluzione non è indolore. Negli ambienti conservatori americani cresce la preoccupazione. Donald Trump avrebbe attivato canali informali per tentare di influenzare il futuro conclave? Non è chiaro. Certamente non per promuovere un Papa statunitense – scenario oggi fuori portata – ma per bloccare l’espansione dell’“asse asiatico” della Chiesa. L’accordo Cina-Vaticano viene visto con sospetto: per Trump, l’idea che due entità globali – la Chiesa cattolica (1.3 miliardi) e la Cina comunista (1.4 miliardi) – possano condividere scenari e strategie è un rischio geopolitico. La posta in gioco? L’influenza culturale dell’Occidente sul cristianesimo globale.
Una Chiesa insulare, marittima, nomade
A cambiare, infatti, non è solo la provenienza geografica, ma la visione stessa della Chiesa. Dei 133 cardinali elettori attuali, ben 50 provengono da città portuali o isole. Una scelta simbolica: Francesco privilegia i crocevia, le periferie liquide, i luoghi di transito e migrazione. Guayaquil in Ecuador invece di Quito, Tamatave in Madagascar invece di Antananarivo. Come Magellano, Papa Francesco guardava il mondo “dal mare”, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra i popoli. È un’ecclesiologia dell’orizzonte, mobile e imprevedibile, che sfugge agli schemi classici del centro e della periferia.
Il conclave come compimento della riforma
Il Sacro Collegio che si prepara al conclave è l’espressione più compiuta della riforma di Bergoglio. Non è più solo un corpo elettorale: è già un’anticipazione della Chiesa che verrà. Una Chiesa fluida, rappresentativa, plurale. Ma anche potenzialmente instabile. Se alle conferenze episcopali – oggi protagoniste nel governo pastorale – venisse domani riconosciuto un ruolo dottrinale autonomo, si aprirebbe una stagione nuova e complessa: una “sinodalità radicale” che potrebbe spingersi fino ai confini della comunione cattolica, innescando dinamiche simili a quelle del mondo ortodosso.
Sarà questo il futuro? O resterà un’ipotesi incompiuta? Il conclave resta, per ora, l’ultima monarchia elettiva del mondo. Ma il vento che soffia da sud e da est ha già cambiato il clima.